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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa Rassegna Stampa
12.02.2016 Elizabeth Badinter: ebrea, femminista, socialista come vede l'islam
L' intervista di Mattia Feltri, Anna Foa su islam e la donna

Testata: La Stampa
Data: 12 febbraio 2016
Pagina: 28
Autore: Mattia Feltri - Anna Foa
Titolo: «'Care femministe, fermiamo l'islamismo' - Una cultura che vede la donna subordinata»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/02/2016, a pag. 28, con il titolo "Care femministe, fermiamo l'islamismo", l'intervista di Mattia Feltri a Elisabeth Badinter; con il titolo "Una cultura che vede la donna subordinata", l'analisi di Anna Foa.

Ecco gli articoli:

Mattia Feltri: "Care femministe, fermiamo l'islamismo"

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Mattia Feltri

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Elisabeth Badinter

«Sono quasi trent’anni che cediamo spazi all’islam radicale per paura di passare per islamofobi», dice alla Stampa Elisabeth Badinter, scrittrice e filosofa francese, 71 anni, femminista convinta che il femminismo abbia rinunciato a sé stesso per ragioni politiche. Sposata con Robert Badinter (ministro della Giustizia che nell’81 portò all’abolizione della pena di morte in Francia) ha scritto molti saggi di successo. Con noi parla di Colonia, banlieue, donne musulmane, Europa, utero in affitto e tanto altro.

Madame Badinter, dopo le aggressioni di Colonia lei ha criticato la cedevolezza di autorità e giornali...
«E delle femministe! È scioccante la negazione da parte di alcune femministe militanti francesi che hanno preso le difese degli aggressori anziché delle vittime. Ormai se ne parla in tutto il mondo, è un problema che va oltre Colonia, ci si rende conto che siamo sempre stati zitti perché c’è il terrore di fare il gioco dei razzisti e dei partiti di estrema destra. Lo posso capire, ma è proprio negando la realtà che si nutrono razzismo e estrema destra, e che si perde la fiducia della gente. Oggi la priorità delle femministe è lottare contro il razzismo, non per le donne; ecco perché sono più politiche che femministe».

È successo qualcosa di mai visto: non è una violenza sessuale di gruppo, ma di massa.
«È stata una cosa terrificante. Immaginate questa piazza che diventa una trappola collettiva, circondata da un migliaio o forse più di uomini che tentano di toccare e aggredire le donne. In Europa avvengono stupri, molestie, aggressioni di gruppo, ma mai in questo modo. Sembra quasi una scena di fantasia, dove il quantitativo cambia il qualitativo: le donne circondate e gli uomini che le accompagnano non sanno difenderle. Non vuol dire che non ci siano tedeschi o francesi che violentano le donne, ma nessuno farebbe finta di niente. Invece la prima reazione è stata di definire merde quelli che attaccavano gli immigrati: “Non voglio le vostre merde razziste” ha scritto in un tweet una leader femminista».

Non attaccavano una donna, ma una cultura.
«Penso di sì, ma potrei sbagliarmi. È difficile avere un’opinione compiuta perché non ci vedo dietro un piano. Però ci sono molti ragazzi immigrati frustrati sessualmente - arrivano qui, sono soli - e con un’idea della donna occidentale profondamente sbagliata: che sia una puttana. Di più non vorrei dire perché rischio di esprimere un parere malfondato».

Il rischio dell’islamofobia c’è?
«Io giro, vado nelle banlieue, vado nei licei, e la grande maggioranza dei francesi non è né lepenista né di estrema sinistra: è stufa, siamo tutti molto stufi. E quest’arma colpevolizzante di dare degli islamofobi è efficace, se ne ha paura. Ma i francesi non odiano né temono l’islam, temono l’islamismo, cioè la radicalizzazione dell’islam che è una delle vie che conducono al terrorismo. Sono anni che segnalo il pericolo e mi prendevano in giro, mi dicevano che vedevo estremismo dappertutto. Ora basta, dobbiamo dire quello in cui crediamo. C’è una terza via fra fiancheggiare Marine Le Pen e negare la realtà, e parte da un valore non negoziabile e oggi messo in discussione: la parità tra uomo e donna. Se passeggiate a Saint-Denis o a Aubervilliers, vedete che non ci sono più donne nei caffè. C’erano ancora tre anni fa, adesso non più. È la nostra cultura della laicità a essere minacciata».

La reazione è la radicalizzazione di altre religioni?
«Sì, per esempio nella comunità ebraica si rafforza l’identità portando la kippah in pubblico. Ai tempi miei o di mio padre non succedeva, la si indossava in casa o in sinagoga per pregare. Ora si vedono bambini per strada con la kippah, ma dopo l’aggressione del professore ebreo a Marsiglia mi chiedo a che cosa serva. Ad aver qualche morto in più? Si può essere buonissimi ebrei senza esibirlo».

All’inizio dell’occupazione nazista di Parigi, Emil Cioran scrisse che la forza della Francia era esaurita, che le sue conquiste democratiche le erano venute a noia. Sta succedendo in Europa?
«No, non credo. Ci sono oppositori determinati a difendere la loro libertà. È vero, oggi la Francia è in uno stato di debolezza psicologica, c’è depressione perché cinque o sei milioni di francesi non hanno accesso al lavoro vero, c’è incertezza su come affrontare l’Isis, e vale per tutta l’Europa, ma non è stanchezza per la democrazia. Anzi, dopo le stragi del 13 novembre, e anche dopo Charlie Hebdo e Hyper Casher, la reazione dei francesi è stata magnifica: a parte qualche scritta da delinquenti sulle moschee, non ci sono state risposte violente».

In Italia si è parlato diSottomissionedi Michel Houellebecq soprattutto perché prevede l’elezione di un presidente islamico.
«Houellebecq ha anticipato una possibilità, era interessante immaginarla ed è stato molto bravo. Nel libro c’è una presa del potere in dolcezza e i francesi sono sottomessi ma non credo che le cose stiano così».

Si rinuncia ad alcune conquiste.
«Ma succede almeno dalla fine degli Anni Ottanta: ricordate lo shock quando le ragazze cercarono di entrare con il velo nel liceo di Creil? È dall’89 che gli islamici radicali occupano spazio pubblico e la sfida di oggi è contenere le richieste perché, appena se ne accontenta una, se ne avanza un’altra. In Francia si è lasciata mano libera ai predicatori salafiti arrivati dall’Algeria e guardate la fortuna che ha fatto Tariq Ramadan, il maître-à-penser delle periferie. Bisogna contrastare impietosamente gli imam che raccontano enormità: a Brest uno diceva ai bambini che chi ascolta musica diventa un maiale o una scimmia. C’è voluto il 13 novembre perché se ne parlasse».

Lei crede nella possibilità di un islam moderato?
«Ma certo. Lo abbiamo avuto fino a tutti gli Anni Ottanta. Era un islam dei lumi, c’era chi faceva il ramadan e chi no. È colpa nostra che non aiutiamo gli intellettuali musulmani e le donne delle periferie che difendono l’islam dall’islamismo, persone con un coraggio formidabile. Lasciamo che le loro siano grida nel deserto».

Un’ultima domanda: che cosa pensa dell’utero in affitto?
«Sono favorevole alla Gpa [gravidanza per altri, ndr], purché sia ben inquadrata in una legge come quella inglese, ottima, che c’è dal 1985, e che pone il limite di due gravidanze, purché non siano retribuite e ci siano un controllo legale e un’assistenza psicologica. Se è un atto sorvegliato di generosità non vedo perché rifiutarlo».

Lei ha sostenuto che la prostituzione è disporre di sé. Qual è la differenza con l’utero in affitto?
«Qui dobbiamo essere lucidi, e se la gravidanza per altri diventasse un mestiere sarebbe una follia. Non sapremmo che succederebbe nel Terzo mondo, e molte donne sarebbero obbligate a cedere il ventre su imposizione di padri e mariti, e cioè sarebbero ridotte in schiavitù».

Anna Foa: "Una cultura che vede la donna subordinata"

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Anna Foa

Gli avvenimenti della notte di Capodanno a Colonia e in altre città europee, violenze, molestie, stupri e furti contro le donne che festeggiavano da parte di gruppi di giovani maschi, per lo più immigrati musulmani, sono un fatto che non può in nessun modo essere minimizzato. [...]

È un discorso, questo, che non vuole rimettere in discussione né l’accoglienza, doverosa e necessaria di fronte all’inferno del mondo da cui provengono i profughi, né tanto meno indulgere alle farneticazioni razziste che delle violenze di Colonia rappresentano, semmai, l’altra faccia della medaglia. Ma non si può, in nome dell’accoglienza, negarci il fatto che stiamo stringendo un patto con una società nel cui seno non esiste uguaglianza, e che la stiamo stringendo con i suoi maschi, di fatto consentendo loro di continuare a opprimere la metà femminile di questa società. L’accoglienza, la concessione del diritto d’asilo, l’offerta di possibilità concrete di inserimento: tutto questo deve essere subordinato a un patto di accettazione delle norme basilari della nostra cultura, la più importante delle quali è quella dell’uguaglianza di tutti, uomini e donne. Il multiculturalismo era nato come rispetto delle differenze, non come ulteriore strumento di sostegno del più forte contro il più debole.

Ci sono certamente, e molto ne è stato scritto in questi giorni, frustrazioni e mentalità che spiegano questi comportamenti di Capodanno da parte dei giovani musulmani, sradicati, senza prospettive, piombati in una cultura che non capiscono. Ma possono al massimo spiegare, non giustificare. E oltre a questo, checché se ne dica per evitare di essere accusati di islamofobia, c’è anche il fatto che quella islamica è una cultura religiosa che in gran parte vede ancora la donna come inferiore e subordinata.

Dico cultura religiosa, non parlo dei testi, perché, come sappiamo, ogni discussione sul testo richiede raffi nati strumenti esegetici e profonde conoscenze storiche. Tutti utensili intellettuali però per lo più rifiutati dalla cultura religiosa del mondo islamico. La modernizzazione dell’islam può passare solo attraverso una moderna ermeneutica dei suoi testi sacri, tale da non portare a considerare i precetti in maniera immutabile e dogmatica ma a storicizzarli, «situandoli nei propri limiti temporali e aprendolo alle preoccupazioni e agli interessi degli uomini nel vivo corso della storia». Tutto il resto è fondamentalismo. La citazione è dal libro Islam e storia dell’egiziano Abu Zaid, uno dei maggiori studiosi di esegesi coranica, morto nel 2010 in esilio in Olanda, a Leida, dove si era rifugiato con la moglie nel 1995 per sfuggire a un processo che voleva imporre alla coppia un divorzio forzato, motivato dall’accusa di apostasia rivolta dagli islamisti ad Abu Zaid.

E allora, potremmo domandarci, esiste nell’islam un movimento femminista? Esiste, e in parte si uniforma ai modelli europei, in parte li rifiuta in nome di una strada autonoma, di un ritorno al Corano visto come propugnatore di una sorta di uguaglianza tra generi. È difficile. Comunque, le sue sostenitrici non sono in galera né fra i morti, e vivono di solito in Paesi occidentali, come Amina Wadoud, che insegna in un’università americana. E anche questo è un segnale significativo. Le donne hanno inoltre partecipato, con obiettivi femministi volti a ottenere l’uguaglianza dei diritti sia nella società sia nella famiglia, anche ai movimenti che hanno portato alla cosiddetta primavera araba. Solo in Tunisia il movimento delle donne continua oggi a essere molto presente, sia pur con crescenti difficoltà e censure. In Egitto, le donne che partecipavano ai cortei della primavera araba hanno subito molestie e violenze da parte sia della polizia sia dei manifestanti maschi. Un fenomeno che ricorda molto da vicino ciò che è avvenuto ora a Colonia.

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