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La Stampa Rassegna Stampa
27.10.2015 Quando i grandi narratori si travestono da analisti politici - senza per questo diventare tali
Abraham B. Yehoshua intervistato da Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 27 ottobre 2015
Pagina: 10
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «'Alla pace non crede più nessuno: è l'ora che l'Europa agisca'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 27/10/2015, a pag. 10-11, con il titolo "Alla pace non crede più nessuno: è l'ora che l'Europa agisca", l'intervista di Giordano Stabile a Abraham B. Yehoshua.

Abraham B. Yehoshua, ancora una volta, si fa portavoce di una riflessione che non fa i conti con la realtà. Ed esprime, di conseguenza, un autoreferenziale wishful thinking incapace di proporre soluzioni concrete. Abraham B. Yehoshua è uno dei massimi scrittori contemporanei, giustamente celebre e acclamato per questo, non è un analista politico. Forse dovrebbe limitarsi a fare il letterato e l'intellettuale, evitando di discutere di quello che non conosce a fondo.

Ecco l'intervista:

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Giordano Stabile

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Abraham B. Yehoshua

Abraham B. Yehoshua è nato a Gerusalemme nel 1936, nel mezzo «del conflitto più lungo della storia, che dura 130 anni»: «Non ho mai visto un giorno di pace, e non sono mai stato così pessimista». Yehoshua, uno dei maggior scrittori israeliani, è in Italia per presentare il suo romanzo «La comparsa» (edito da Einaudi). Avrebbe voluto parlare solo di letteratura ma l’attualità drammatica della nuova «Intifada dei coltelli» lo ha spinto a cambiare programma. Ieri è stato ospite alla redazione della «Stampa» (che in Italia pubblica i suoi interventi da 15 anni), per partecipare a un forum su Israele e Medio Oriente, assieme all’ambasciatore ed editorialista della «Stampa» Roberto Toscano, al direttore Mario Calabresi, ai vicedirettori Massimo Russo e Luca Ubaldeschi.

Come ha reagito l’opinione pubblica israeliana alla nuova esplosione di violenza?
«Manca una via di uscita. Israele oggi non teme il nemico esterno, non ha grandi Stati che la minacciano, non rischia un conflitto armato tradizionale. Non teme neppure il terrorismo islamista, l’Isis. I confini sono sicuri, blindati. Con i più importanti vicini arabi, l’Egitto, la Giordania, c’è una pace fredda che però funziona. La cooperazione, per esempio sulla sicurezza, va avanti, gli egiziani sono anche più duri di noi con Hamas! Il nemico è interno: giovani suicidi che si gettano sui passanti con un coltello e vengono abbattuti subito, senza pietà. Sono attacchi suicidi personali. Non parliamo di gente indottrinata da Hamas, da fanatici, dall’esterno. Sono giovani che agiscono da soli. E questo suscita uno stato d’animo che non abbiamo mai provato prima. Ho parlato di recente con colleghi come Amos Oz e David Grossman. Da qualche settimana siamo in uno stato di grande depressione. Nessuno parla più di processo di pace».

Quanta responsabilità di questa situazione porta la destra al governo in Israele?
«Destra e sinistra non hanno senso in questo contesto. Dobbiamo parlare piuttosto di campo per la pace. Prendiamo gli insediamenti, non sono solo voluti solo dalla destra, c’erano anche i kibbutz socialisti. Alcuni partiti religiosi possono avere posizioni liberali nel campo dei diritti civili, per esempio, ed essere ferocemente contro la pace. Ora nessuno parla più di pace di come far ripartire il processo cominciato a Oslo. Quanto al governo, a Benjamin Netanyahu, non avrei immaginato di udire certe cose. La vecchia destra, il Likud, sono ultraliberali rispetto a lui».

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"La comparsa", ultima opera di A.B. Yehoshua

Quanto è forte Netanyahu in questo momento?
«Ha una maggioranza di un voto alla Knesset… È molto debole, ma il problema che i suoi alleati sono molto più falchi, più oltranzisti di lui. Netanyahu, almeno a parole, è ancora formalmente per la soluzione due popoli due Stati. Ma il suo atteggiamento di fronte a questi giovani con il coltello è sconcertante. Non dice nulla. Non dice: “Non fatelo, ci dispiace per la vostra situazione, avrete il vostro Stato”. Nulla».

Non ha una strategia? Che cosa pensa voglia fare?
«Netanyahu vuole resistere. Conservare il potere. In fondo l’economia va abbastanza bene. Non siamo in guerra, perlomeno in senso tradizionale. Non arrivano immigrati. Lui dice: “Vedete? Se ci fosse uno Stato palestinese indipendente ora avremmo fiumi di profughi siriani alle porte”. E la questione palestinese? Pensa ad accusare il Gran Muftì…».

Quant’è grave la gaffe sul Gran Muftì palestinese che avrebbe suggerito a Hitler di sterminare gli ebrei?
«È assurdo, terribile: vuole attribuire la responsabilità dell’Olocausto ai palestinesi. Non c’entrano assolutamente nulla».

Quanto pesano le responsabilità di Europa e Stati Uniti in questa situazione?
«La politica degli Stati Uniti nella regione la definirei criminale. Non hanno fatto nulla per spingere sia Israele che i palestinesi verso la pace, per costringerli ad andare avanti. E non parlo solo di Bush, anche Clinton. Quanto a Obama era atteso come se dovesse fare da un momento all’altro un miracolo. Che non è mai arrivato. Ma la vera delusione è l’Europa. Non si prende nessuna responsabilità. È come se continuasse a ripetere “Siamo deboli, divisi, non possiamo far nulla”. Ma come, mi chiedo, vi siete uniti, avete vissuto per settant’anni in pace, avreste molto da dire e da fare in Medio Oriente. Perché non agite? È un atteggiamento che mi infastidisce profondamente».

Ma che potrebbero fare, ora che il processo di pace è così compromesso? Chi ha più colpe?
«Siamo prigionieri di richieste inaccettabili. Prigionieri di vecchi slogan. Netanyahu che pretende il riconoscimento di Israele come stato ebraico dai palestinesi, Abu Mazen che insiste sul ritorno di tutti rifugiati in Israele. I palestinesi sembrano incapaci di reagire, si ergono a vittime in eterno. Ricordo quando il premier Ehud Olmert andò a Ramallah, da Abu Mazen, con un mappa. Gli offriva la restituzione del 95 o il 96 per cento di tutti i territori occupati. Abu Mazen prese la mappa e non reagì, non disse nulla. Non disse: “Dammi il 98 per cento”. Niente. Quando chiedi ai palestinesi se credono nella pace, nel futuro, rispondono: “Possiamo aspettare, anche cent’anni”. Hanno visto passare i crociati, poi sono arrivati gli ebrei dall’Europa, da tutto il Medio Oriente. Pensano: “Passeranno anche loro”. Aspettano».

E gli israeliani?
«Che urgenza hanno? Non ci sono più Stati nemici che possono invaderli. Siamo in pace con l’Egitto, la Giordania. La Siria e l’Iraq sono distrutti. Anche Hezbollah è indebolito, assorbito dalla guerra in Siria. Io sono nato a Gerusalemme nel 1936, la mia famiglia era arrivata all’inizio dell’Ottocento. Negli Anni Trenta c’era la guerriglia contro gli inglesi e gli arabi. Poi è arrivata la Seconda guerra mondiale. Poi la guerra di indipendenza. In seguito ho partecipato alle campagne del ’56 e del ’67. Ora ci sono ufficiali che in tutta la loro carriera non hanno combattuto una guerra vera. Non parliamo di Gaza. Nel ’56, nel ’67 Gaza venne occupata in un giorno o due. Bombardarla dall’alto non è combattere. Oggi i soldati fanno i controlli sugli autobus. Ma il conflitto interno non finisce mai. Anche perché, per alcuni, il conflitto è un business. Nei territori occupati arrivano gli aiuti internazionali, dall’Onu e dall’Unione europea. A Israele le compensazioni americane perché non faccia deragliare l’accordo con l’Iran».

La sua presa di posizione, in Italia sul nostro giornale, per un unico Stato binazionale - invece che «due popoli, due Stati» - ha fatto scalpore. Perché ha cambiato idea?
«È il contrario di quello in cui ho creduto tutta la mia vita ma ora non vedo altro modo per mettere fine all’occupazione. E senza la fine dell’occupazione non ci può essere pace. Non possiamo trasformare la Cisgiordania in tanti piccoli Bantustan, come nel Sudafrica dell’apartheid. Nel 1948, un mese appena dopo la fine della guerra, Ben Gurion concesse la piena cittadinanza agli arabi sul territorio di Israele. Abbiamo avuto deputati che non parlavano ebraico, ci volevano i traduttori… Gli arabo-israeliani allora erano 130 mila. Ora sono oltre un milione e mezzo, il 20 per cento della popolazione. Ottimi cittadini. Leali. Ben integrati».

Un vecchio adagio mediorientale dice che non ci può essere al tempo stesso un Israele grande, democratico e a maggioranza ebraica. Nel senso che se annette la Cisgiordania rischia di trasformare gli ebrei in una minoranza. Oppure deve negare i diritti civili ai palestinesi…
«La Cisgiordania è divisa, dopo gli accordi di Oslo, in tre zone: A,B,C. La zona C è quella sotto ancora sotto il completo controllo di Israele. Potremmo cominciare concedendo la piena cittadinanza ai palestinesi che vivono nella zona C. E poi eventualmente proseguire».

Ma i palestinesi sembrano aver scelto la strada del riconoscimento internazionale, all’Onu.
«Sì, è vero. Va detto che vedere sventolare la bandiera alle Nazioni Unite dà una grande forza. Me lo ricordo bene, nel 1948».

Il Medio Oriente è però sempre più caratterizzato dallo scontro religioso. E l’antisemitismo è tornato a inquinare il dibattito su Israele. Non è il caso di ristabilire un confine invalicabile fra questione di Israele e antisemitismo?
«Il conflitto che vediamo in questo momento in Israele è territoriale, non è religioso. Anche se ci sono parti che vogliono allargarlo alla dimensione religiosa. Il paradosso è che all’inizio del Novecento gli antisemiti usavano strumentalmente il sionismo per cacciare gli ebrei dall’Europa: “Andatevene in Palestina”. Oggi è il contrario, si usa il sionismo per alimentare l’antisemitismo: “Andate via. Tornatevene in Polonia”. Ma anche gli ebrei oggi sono confusi. Molti non usano criticare le politiche sbagliate di governo per paura di essere accusati di antisemitismo».

Ora però anche l’Isis minaccia apertamente di «uccidere, cacciare gli ebrei».
«Sì certo. Fanno questi video propagandistici con esibizione di coltelli. In fondo, come ho scritto nel mio libro “Il signor Mani”, c’è anche questa visione dell’arabo “come l’artista del coltello nascosto”. E poi c’è questa idea medievale del suicidio. È un concetto che l’Occidente non contempla».

Però queste idee medievali stanno distruggendo la Siria, l’Iraq. Come reagisce a queste guerre terribili?
«Quando ho visto il caos in Iraq volevo dire agli americani: “Non fate più questi interventi, non fate discorsi assurdi sul ricostruire nazioni, portare la democrazia”».

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