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La Stampa Rassegna Stampa
04.09.2015 L'Occidente nella trappola siriana: in attesa dell'invasione
Commento di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 04 settembre 2015
Pagina: 7
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «L'Occidente nella trappola siriana»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/05/2015, a pag.7, con il titolo "L'Occidente nella trappola siriana", in cui Maurizio Molinari spiega come si è giunti al caos mediorientale attuale. Che consente di capire le tragedie dei migranti, e perchè l'Occidente si rifiuta di trovare una giusta soluzione.


Maurizio Molinari

L'Occidente nella trappola siriana


«Fermate la guerra e non verremo in Europa». Le parole del bambino tredicenne siriano ai poliziotti ungheresi nella stazione di Budapest pongono il legittimo interrogativo su cosa l'Unione europea e l'Occidente potrebbero fare per porre termine al conflitto nella Repubblica di Siria, iniziato nel marzo 2011, che ha già causato 240 mila vittime, 4 milioni di profughi all'estero, 7 milioni di profughi interni ed immani distruzioni materiali, proiettando verso il Vecchio Continente almeno 250 mila disperati che minacciano di moltiplicarsi. Le opzioni a disposizione per risolvere o quantomeno arginare la guerra civile sono tre: soluzione militare, compromesso diplomatico e aiuti umanitari.
Su ognuno di questi fronti la comunità internazionale agisce al momento con risultati assai scarsi facendo emergere una miscela di titubanze politiche, rivalità strategiche e carenze di impegno finanziario che rendono impossibile perseguire le soluzioni possibili ovvero l'invio di contingenti di terra, un accordo sulla transizione dopo-Assad oppure un vasto e ben coordinato piano di aiuti di emergenza. Questa pagina spiega perché le soluzioni possibili per la Siria restano ancora troppo lontane.

L'intervento armato
Raid aerei insufficienti Nessuno vuole mandare le truppe di terra

 
Lo stato islamico

L'intervento armato per avere successo deve portare alla fine dei combattimenti che al momento vedono impegnati circa 5000 diversi gruppi militari inclusi quattro attori principali: il regime di Bashar Assad, lo Stato Islamico (Isis), la coalizione islamica «Esercito della Conquista» e l'Esercito di liberazione. La coalizione internazionale, guidata dagli Usa, da un anno effettua raid aerei contro i jihadisti di Isis ritenendo che sia la soluzione tattica migliore per arrivare alla fine del conflitto. Ma Michael O'Hanlon, esperto di strategia della «Brookings Institution» di Washington, afferma che «servono le truppe di terra» per prevalere. Immagina un contingente di truppe speciali «di 2000-3000 uomini» in «azioni tipo blitzkrieg» per dare la caccia ed eliminare ovunque a cellule j ihadiste e terroristi. «Ma il problema è che Obama non vede la sconfitta di Isis come un interesse nazionale - spiega Max Boot, arabista del Council on Foreign Relations - e di conseguenza l'invio di truppe di terra non è ipotizzato». Anche Richard Dannatt, ex capo di Stato Maggiore delle forze britanniche, è a favore dell'invio di «almeno 5000 uomini» ma il premier Cameron non gli dà ascolto perché non solo in America ma neanche in Europa c'è un leader pronto a guidare un intervento di terra. «In tale situazione continueremo i raid dall'aria - osserva Rosa Brooks, alto funzionario del Pentagono fino al 2011- ma avrà lo stesso effetto dell'intervento Nato in Kosovo, salvando la vita dei nostri soldati senza fermare le stragi di civili». Poiché l'Occidente non vuole mandare i soldati per porre fine alla guerra civile, l'altra ipotesi è che a farlo siano i Paesi della regione. II re giordano Abdullah ha detto più volte «tocca a noi farlo» e il ministro degli Esteri saudita ha parlato di «truppe di terra» ma tutto è rimasto sulla carta. L'unica nazione con soldati in Siria è l'Iran: la Forza Al Qods sorregge Assad. Ma ciò non fa altro che prolungare la guerra.

La via diplomatica
Si al governo di unità ma sul destino di Assad non c'è intesa fra i leader


Assad di Siria

 La soluzione diplomatica può passare attraverso la formazione di un governo di transizione. Su questo punto c'è convergenza fra la Russia, protettrice con l'Iran del regime di Damasco, e i Paesi che sostengono i diversi gruppi ribelli: Usa, europei, Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Ma su tutto il resto il disaccordo è totale perché, come riassume Julien Barnes-Dacey dell'Europea Council of Foreign Relations, «il nodo è la sorte di Bashar Assad». Mosca e Teheran vogliono farlo rimanere al potere, tutti gli altri ne perseguono il rovesciamento. Ciò spiega perché Russia e Iran «siamo in questo momento le uniche protagoniste di tentativi diplomatici» come osserva Joseph Bahout della Fondazione Carnegie, facendo notare però che i tentativi di far accettare ad Ankara, Riad, Washington e Bruxelles qualsiasi tipo di sopravvivenza o prolungamento del regime «sono destinati al fallimento» perché «oramai la Siria non esiste più» con metà del territorio nelle mani del Califfato di Isis. Il nodo Assad cela il duello fra potenze regionali: Teheran lo ritiene indispensabile per garantire la propria egemonia nell'arco geografico da Baghdad a Beirut mentre Riad lo vuole abbattere per impedire proprio l'avversarsi di tale progetto strategico. Ma non è tutto perché, aggiunge Emile Hokayem arabista dell'International Institute for Strategic Studies di Londra, «oramai in Siria le fazioni annate locali sono assai più influenti delle potenze regionali, in quanto sono i singoli combattimenti sul terreno ad influenzare la dinamica della crisi». Daniel Serwer, politologo della Johns Hopkins School of Advanced International Studies aggiunge: «Con almeno 5000 gruppi armati combattenti in lotta fra loro si può fare ben poco, l'opposizione è frammentata e i Foreign Fighters jihadisti ostacolano ogni possibile accordo». Ovvero, anche se le maggiori potenze trovassero un'intesa sul dopo-Assad sarebbe assai difficile far tacere le armi.

Gli aiuti umanitari
II collasso dei soccorsi alimenta la fuga verso l'Europa

 La difficoltà di procedere verso soluzione militare o compromesso politico evidenzia l'urgenza degli aiuti umanitari per soccorrere i civili investiti dalla guerra: potrebbero consentire di arginare l'impatto delle violenze ma quanto avviene in Siria, e nei Paesi confmanti, dimostra l'inefficacia degli interventi adottati. Per l'Ufficio Onu sugli aiuti umanitari (Ocha) su 17 milioni di siriani 12 milioni hanno bisogno di aiuti, 7,6 sono profughi interni e 4,1 sono fuggiti all'estero. Per questa massa di disperati il «Piano di risposta strategica Onu» prevede circa 3 miliardi di dollari di cui i Paesi donatori però hanno versato solo un terzo. Oltre a mancare i fondi, c'è carenza di mezzi: i convogli Onu che portano cibo alle popolazioni nelle zone assediate - dai villaggi a città come Aleppo - sono rari, ciò aumenta l'emergenza e spinge a fuggire. A ciò si aggiunge quanto avviene nei Paesi vicini. La Giordania, che ospita 630mila profughi pari al 9 per cento della popolazione, ha chiuso le frontiere da un anno perché teme che i campi a Zaatari e Azraq divengano epicentro di faide fra gruppi siriani rivali. In Libano, dove i rifugiati sono 1,2 milioni pari al 26 per cento della popolazione, è stato introdotto da gennaio un regime di visti che ostacola molto gli arrivi. Ciò trasforma la Turchia nell'unica via di fuga rimasta dalla guerra. Ankara ospita 1,8 milioni di profughi, di cui il 10 per cento in campi nel Sud, e ha speso già 6 miliardi di dollari ricevendo dalla comunità internazionale appena 300 milioni di dollari. Beirut e Amman sono ancor più in affanno. Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, ammette: «Avevamo promesso a Giordania e Libano 7 miliardi di euro, ne abbiamo dati meno di tre». La conclusione è di Paulo Pinheiro, capo della commissione d'inchiesta Onu sulla Siria: «E il collasso dei tentativi di proteggere e soccorrere i rifugiati ad originare l'esodo di massa verso l'Europa».

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