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LA STAMPA di oggi, 12/08/2015, a pag.16, con i due articoli di Maurizio Molinari e la cronaca di Francesca Paci, più il pezzo di Cesare Martinetti che apre in prima pagina, è il quotidiano che ha affrontato a 360 gradi la nomina di Fiamma Nirenstein a prossima ambasciatrice d'Israele in Italia. Ecco gli articoli: Maurizio Molinari: " Nirenstein 'Sono sionista e amo i nostri due paesi " Inizia al numero 9 di Rabin Boulevard il primo giorno di Fiamma Nirenstein dopo la designazione ad ambasciatrice a Roma da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Sono passate da poco le 10 e al ministero degli Esteri entra nelle vesti di diplomatico in pectore. «E l'inizio di una nuova fase della mia vita - dice, tradendo una certa emozione - nella quale mi guideranno, come sempre, l'amore per Israele e per l'Italia». Superata la soglia del dicastero guidato da Netanyahu, che è anche titolare degli Esteri, la aspettano gli incontri di presentazione con funzionari e commissioni che dovranno curare il processo di conferma della designazione così come i briefmg necessari in vista dell'arrivo a Roma, al momento in programma per l'estate 2016. «Corono il sogno di una vita ma questo è soprattutto il momento di studiare - dice - ci sono cose da apprendere, persone da conoscere, realtà da comprendere».
La missione Maurizio Molinari: " Netanyahu si affida agli ebrei della Diaspora "
La scelta di Benjamin Netanyahu di assegnare a Fiamma Nirenstein la nomina politica all'ambasciata di Roma nasce da una «nuova visione del ruolo degli ebrei della Diaspora»: a suggerirlo sono Shimon Shieffer e Ben Caspit, editorialisti di «Yedioth Aharonot» e «Maariv». Per Casprit il premier israeliano già nel duello con Barack Obama al Congresso Usa sulla sorte dell'accordo con l'Iran «ha dimostrato di volersi comportare come il re degli ebrei». Se in passato i premier israeliani tendevano a rispettare autonomia e distanza dalle comunità della Diaspora ora Netanyahu esprime un approccio opposto, coinvolgendoli. Schiffer ritiene che ciò nasca dal fatto che «Netanyahu in primo luogo non si ritiene israeliano ma americano» ed a dimostrarlo ci sono «i comportamenti politici negli Stati Uniti» ma anche «frasi come quelle pronunciate in privato dalla moglie Sarah sul fatto che potrebbe essere eletto in America». Schiffer, spesso graffiante contro il premier, si spinge a dire che «Netanyahu ha dimostrato quasi di odiare i diplomatici israeliani» scegliendo, per due volte di seguito, per l'ambasciata a Washington un ebreo americano: prima Michael Oren e poi Ron Dremer. E «un approccio Retroscena Netanyahu si aida agli ebrei della Diaspora che si ritrova nella designazione a Roma di Nirenstein, ebrea italiana, perché il premier ritiene prioritaria la Hasbarà , comunicare con il pubblico, e arriva dunque a scegliere come ambasciatori ebrei della Diaspora molto abili su questo terreno». Barak Ravid su «Haaretz» conferma: «Nirenstein è considerata una delle più forti voci pro-Israele in Europa». Ma non è tutto perché, concordano gli analisti, «Netanyahu ha anche un obiettivo interno, smantellare il ministero degli Esteri già guidato da Avigdor Lieberman, un alleato che lo ha abbandonato» e così «dopo aver chiuso la sede di Minsk, annuncia la sostituzione di Naor GhiIon considerato vicino proprio a Lieberman». A confermare che Nirenstein rientra nel «piano di Netanyahu di ridisegnare la diplomazia» sarebbe, secondo indiscrezioni, il ruolo svolto nell'occasione da Dore Gold, nuovo direttore generale. Ultimo tassello, ma non per importanza, gli stretti legami fra Netanyahu ed il premier italiano Renzi, testimoniati dalle quattro ore di cena a fine giugno a Gerusalemme discutendo una vasta agenda. Netanyahu avrebbe informato in anticipo Renzi della scelta di Nirenstein a Roma ottenendo un avallo che trasforma il nuovo ambasciatore nel tassello della stretta intesa, personale e politica, fra i due leader. Cesare Martinetti: " Israele gli ebrei e la trappola dei radicalismi " Itrecento gendarmi in assetto di guerra che la prefettura di Parigi schiererà domani a difesa della giornata di festa «Tel-Aviv sur Seine» vigileranno in realtà su una duplice ipocrisia: quella della nostalgica e schematica ultrasinistra francese e quella di Anne Hidalgo, sindaco socialista della capitale. Dice l'ultragauche, per voce di Julien Salingue su «Libération» di ieri: non siamo antisemiti, ma invitare Tel Aviv all'estate parigina è un'operazione politica che serve soltanto a riabilitare lo Stato israeliano per cancellare i suoi crimini, a un anno da Gaza e a pochi giorni dall'ultimo delitto, un bimbo di diciotto mesi bruciato nell'assalto di fanatici all'abitazione di attivisti palestinesi. Risponde Hidalgo m «Le Monde» di ieri: Tel Avivè la città dei nottanihuli di tutto il mondo, è la città aperta a tutte le minoranze comprese quelle sessuali. Creativa, inclusiva, è la città dell'opposizione al governo Netanyahu... Due ipocrisie: l'autoassoluzione preventiva e non richiesta dal sospetto di «antisemitismo» da parte degli uni, la pretesa di estrapolare Tel Aviv dal contesto israeliano per giustificarsi dando così implicitamente ragione agli altri da parte di Hidalgo. Sono alla fine due punti di vista che convergono, non tanto nel giudizio negativo sulla politica del governo Netanyahu (il che è naturalmente legittimo) ma in quell'imbarazzo di fondo che avvelena la Francia ogni qual volta emerge la questione Israele-ebrei. Ed è un nodo terribile che giace nel sottosuolo della coscienza francese. Sono passati otto mesi da quel 7 gennaio che tutti ricordano come il giorno di Charlie Hebdo, ma andrebbe ricordato anche il 9 gennaio che invece non è fissato nella memoria collettiva da alcun riferimento e invece è il giorno dell'assalto all'Hypercacher di Porte de Vincennes, dove Amedy Coulibaly uno di questi solitari combattenti di Allah uscito dal nulla di qualche banlieue ha ucciso quattro persone perché «erano ebree». E questo stesso Coulibaly il giorno prima avrebbe voluto azionare il suo kalashnikov nella scuola ebraica di Montrouge ma venne bloccato dalla giovane poliziotta di guardia, di origini africane, rimasta uccisa. Un fatto mai abbastanza ben raccontato dai media francesi che soffrono spesso di esitazioni nazionaliste. E stato il presidente Hollande, timidamente, al funerale della poliziotta di Montrouge, a rivelare l'assalto sventato: «Gli è stato impedito di andare oltre nella sua follia...». S'è detto a dismisura - e ancora si dice di tanto in tanto-«Je suis Charlie» per partecipare dello spirito laico e libertario dei vignettisti uccisi, ma nessuno s'è mai sognato di dire - per esempio - «Je suis Joav», il nome del ragazzo che ha tentato di disarmare Coulibaly ed è rimasto ucciso. Aveva 21 anni, era figlio del rabbino di Tunisi, era arrivato da poco a Parigi. Come ha raccontato il padre a Stefania Miretti su «La Stampa» e in un reportage tv andato in onda su Rai 3, Joav era choccato per le scritte antisemite sui muri della capitale e per le manifestazioni in cui si sentiva facilmente gridare «Morte agli ebrei». In Tunisia non gli era mai capitato, anzi - diceva il padre - «se da noi non trovo la sinagoga, vado in moschea a fare la mia preghiera». L'incontro con Tel Aviv avviene in un contesto ben diverso, siamo a Paris-plage, questa manifestazione dai toni decisamente pop che la Mairie organizza ogni estate dal 2002. Un chilometro di rive della Senna vengono attrezzate a spiaggia e si fa veramente tutto quello che si farebbe in una spiaggia, salvo lo spiacevole inconveniente che non c'è il mare e nemmeno modo di fare un bagno: solo spruzzi d'acqua nebulizzata. E qui che Tel Aviv e Paris si scambieranno chiacchiere d'estate sotto la guardia stretta della gendarmerie. E pensare che una vecchia signora come Parigi avrebbe davvero molto da imparare dalla giovane metropoli israeliana che raggruppa oggi forse la più grande concentrazione al mondo di creatività e di innovazione, in un contesto umano travolgente che con la sua carica di dinamismo anche sociale è la vera speranza di soluzione futura del conflitto infinito e anchilosato da vecchi statisti che guardano indietro e non sanno andare avanti. Certo la politica di Netanyahu, il risorgere di estremismi che si sentono evidentemente coperti dal governo, sembra fatta apposta per incoraggiare i sostenitori di assurdi boicottaggi, compresa Tel-Aviv sur Seine. Ed è in questo clima difficile che Fiamma Nirenstein è stata nominata ambasciatrice dello Stato di Israele in Italia. Una nomina che sta provocando molte discussioni tra gli ebrei italiani tradizionalmente mai appiattiti sul governo. Fiamma ha collaborato per tanti anni con «La Stampa», poi ha fatto una scelta politica ed è stata deputata per il Popolo della Libertà. E troppo esperta e troppo italiana (nonostante abbia ora rinunciato alla nazionalità per ragioni d'ufficio) per cadere nella trappola dei radicalismi che si inseguono e si moltiplicano. Non ne abbiamo bisogno, semmai abbiamo necessità di credere che non saranno i vecchi pregiudizi a negare il futuro che si intravede in una svolta storica come l'accordo con l'Iran. A Fiamma Nirenstein i nostri auguri più affettuosi. Francesca Paci: " Può alimentare il sospetto che siamo prima ebrei e poi italiani " Fiamma Nirenstein ambasciatore d'Israele a Roma? Gli ex colleghi parlamentari italiani non si scompongono, alleati e avversari politici ripetono che ogni governo si sceglie legittimamente i propri rappresentanti. Posizioni diverse ma non polemiche. Cosi laddove Marta Grande dei 5Stelle auspica «l'apertura di un dialogo a livello diplomatico sul riconoscimento della Palestina», Antonio Nani di Forza Italia plaude alla «scelta molto positiva d'una professionista per un paese fondamentale per la pace e la stabilità della regione» e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi, che ha lavorato con la Nirenstein a Bruxelles, parla di una buona notizia «per il lavoro contro l'antisemitismo da continuare a fare insieme in Italia e in Europa». La questione muta all'interno della comunità ebraica, dove al netto di orientamenti diversi si respira la comune preoccupazione per l'incarico affidato a una persona di doppio passaporto che può ravvivare l'atavico sospetto di doppia lealtà alla base del peggior antisemitismo. A quale paese è più fedele un ebreo, a quello in cui è nato o a Israele, alias alla sua religione? Il rabbino capo Riccardo Di Segni sorvola sui meriti della Nirenstein (è una bravissima giornalista. Stop), ma ammette l'inquietudine: «Temo che ci possano essere problemi, basta leggere cosa circola già in Rete sulla sua doppia cittadinanza». Cambia poco che l'interessata sia pronta a rinunciare al passaporto italiano. On o off the record, i correligionari che guardano il mondo da sinistra si dicono allarmati e non per le idee politiche della Nirenstein: «Anche se rappresenta un governo che non avrei votato ha le carte in regola. Il problema non è cosa farà, ma la sovrapposizione pesante che può rinfocolare il pregiudizio». Paradossalmente Fiamma Nirenstein ambasciatore d'Israele unisce nella preoccupazione animi politicamente assai diversi. A confermarlo c'è anche Giorgio Gomel, ala liberal dell'ebraismo italiano alla guida dell'associazione JCall (che sostiene la soluzione «a due stati» del conflitto israelo-palestine-se): «E una scelta molto vicina alle posizioni di Netanyahu e del Likud da cui io dissento. Ma mi colpisce soprattutto che una persona candidata fino a poco tempo fa alla guida della comunità romana diventi ambasciatore d'Israele alimentando quella confusione di ruoli e quell'equazione tra Stato d'Israele e ebrei della diaspora contro cui ci battiamo da sempre». II tema è delicato, concede Riccardo Pacifici, ex presidente della comunità romana che alle elezioni per la sua successione ha sostenuto Ruth Dureghello contro la stessa Nirenstein: «E una nomina a distanza atipica e sorprendente ma sono convinto che quando si concretizzerà, nell'estate del 2016, sarà per noi ebrei italiani un'opportunità di volta per rafforzare il legame tra due paesi amici. Fiamma è intellettualmente onesta e farà bene. Eppure...». Eppure? «Eppure sento già montare quell'odioso sospetto che mi accompagna sin da piccolo, quando i compagni mi chiedevano se essendo ebreo tifassi Italia o Israele e io scherzando ripetevo di essere romanista. Nessuno sospetterebbe mai Obama di lealtà agli Usa ma noi ebrei dobbiamo sempre dimostrare di essere più leali degli altri. Per questo ho voluto fortemente la mostra "Prima di tutto italiani" e i manifesti per il ritorno a casa dei marò affissi su tutti i muri del ghetto a Roma». 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