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La Stampa Rassegna Stampa
24.03.2015 Da Cuneo a Tel Aviv seguendo la via della danza
Il ballerino Andrea Costanzo Martini intervistato da Francesca Rosso

Testata: La Stampa
Data: 24 marzo 2015
Pagina: 63
Autore: Francesca Rosso
Titolo: «Martini: 'Un viaggio di andata e ritorno tra Torino e Israele'»

Riprendiamo dalla STAMPA - TORINO di oggi, 24/03/2015, a pag. 63, con il titolo "Martini: 'Un viaggio di andata e ritorno tra Torino e Israele' ", l'intervista di Francesca Rosso a Andrea Costanzo Martini, ballerino italiano che vive e lavora a Tel Aviv.


Andrea Costanzo Martini

Se crei un pezzo di danza dal titolo «What happened in Torino?» che riceve il primo premio per danza e coreografia alla Stuttgart Solo Tanz Competition nel 2013, prima o poi ti capiterà di venire a tenere un workshop in questa città che è poi anche la città nella quale sei cresciuto come ballerino. Un nome, un destino. Inevitabile. È quanto succede da giovedì a domenica con Andrea Costanzo Martini. Danzatore e coreografo nato a Cuneo 31 anni fa, oggi vive a Tel Aviv, unico italiano nella Batsheva Dance Company tra il 2006 e il 2010 e affermato protagonista della danza contemporanea. Andrea si è diplomato a Monaco e ha lavorato con il Cullberg Baletten a Stoccolma e con Inbal Pinto e Avshalom Pollack Dance Company. Parallelamente ha sviluppato un percorso di coreografo e insegnante Gaga. Ad ospitarlo è la Nuova Officina della Danza, fucina creativa che propone i migliori danzatori sulla scena moderna e contemporanea, diretta da Silvana Ranaudo.

Lavorerete sullo stile Gaga che sta cambiando il modo di sentire e vivere la danza. Cos’è?
«È un linguaggio del movimento proposto da Ohad Naharin della Batsheva. In realtà è una toolbox, una cassetta degli attrezzi, come la chiama Ohad. Non una tecnica prestabilita, ma un lavoro su sensazioni ed emozioni. È un tipo di azione immediata e adatta a tutti: a chi ha studiato danza e a chi no. Ad esempio si immagina di muovere il corpo tirando la pelle, come se non ci fossero ossa e di lasciar nascere da lì l’espressione. Non c’è giusto e sbagliato, solo verità del movimento».

Come nasce «What happened in Torino»?
«Semplicemente è arrivato. Come succede per la danza. Lo sforzo non è tanto creare, ma organizzare qualcosa che arriva. È come mettersi in ascolto. Inventare passi o movimenti o forme a volte è un predisporsi a ricevere e accogliere quello che viene. E così è stato con questo nome. Ed è fondamentale il punto di domanda che lascia aperte delle porte».

Che rapporto ha con l’Italia lei che ha scelto di lavorare a Tel Aviv anche nei giorni in cui suonava l’allarme anti bomba?
«Sono stato via tanti anni e non so più nulla di cosa succede sulla scena della danza. Ho un po’ di nostalgia e questo primo workshop potrebbe essere l’inizio di un graduale avvicinamento. Ormai la mia vita è a Tel Aviv. Ho lasciato l’Italia e non ho rimpianti. Certo non mi dispiacerebbe creare un ponte. Potrei condividere quanto ho imparato in questi anni fra Germania, Svezia e Israele e assorbire un po’ di quello che succede a livello artistico in Italia».

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