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La Stampa Rassegna Stampa
07.12.2014 Domenico Quirico, un reportage eccezionale dalla Libia
e un inrtervento del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni

Testata: La Stampa
Data: 07 dicembre 2014
Pagina: 1
Autore: Domenico Quirico-Paolo Gentiloni
Titolo: «Fra i miliziani in marcia su Tripoli, traditi dall'Europa, ma vinceremo-L'Italia resterà sempre in prima linea»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/12/2014, a pag. 1/2/3 due articoli sulla Libia, il primo dell'inviato Domenico Quirico, il secondo del Ministro degli Esteri Paolo Genrtiloni.


Eccoli:

Domenico Quirico: " Fra i miliziani in marcia su Tripoli, traditi dall'Europa, ma vinceremo"

Di eccezionale interesse la prima puntata del reportage di Domenico Quirico, quale lucidità di analisi storico-politica, e quale coraggio nel dire quelle verità che i nostri politici hanno paura di affrontare.
Ci auguriamo che il nostro nuovo ministro degli esteri lo legga con l'attenzione che merita.

 Domenico Quirico

Camminiamo lungo la scarpata. La sera è simile alle sere senza cannone. Sul crepuscolo da ritratto equestre, nell'odore dei pini e delle erbe da pietraia, la montagna scende con un balzo decorativo fino al deserto, su cui la notte cala come sul mare. I pick-up la mitragliera, accovacciato presso la sua trincea, sembra dimenticato da una guerra iniziata in pieno sole. «Dove avete sbagliato in questi quattro anni dopo che Gheddafi fu ucciso? Oggi la Libia è nel caos: due governi, due parlamenti, decine di milizie che si spartiscono il Paese, le bandiere nere del califfato a Derna e Bengasi».
La caduta di Gheddafi
II primo soldato è un piccolo rapace dal naso a becco, dall'occhio ironico che non smette mai di sorridere. «Volevamo abbattere il tiranno, non pensavamo ad altro. In fondo ancora una volta è colpa sua, del Colonnello, ci ha tenuto rinchiusi per quarant'anni, abbiamo vissuto con il paraocchi, non conoscevamo il mondo. E noi libici siamo gente semplice, facile da ingannare». Qualche colpo di arma da fuoco isolato e lontano rende più profonda la pace delle montagne. Si annuncia una bella notte. «Siamo giovani - continua il secondo miliziano (lui non ride mai come accade agli uomini che difendono cause importanti, dovrebbero essere felici o almeno sereni, invece la loro espressione è sempre la tristezza ) - stiamo cercando di costruire uno Stato dove ci sia un governo, dove comandi un'autorità, ci sia ordine. Tre anni fa abbiamo lasciato le armi dopo la vittoria, ci siamo ritirati da Tripoli. Pensavano che tutto fosse fmito. Abbiamo organizzato tre elezioni in questo tempo e tutte sono andate bene: la gente partecipava, si vedeva che desiderava finalmente una democrazia. Ma loro, le milizie, i terroristi stranieri, i fondamentalisti hanno cominciato a insinuarsi dappertutto». Prima di passeggiare con me si erano raccolti a pregare con fervore ,recitavano i versi sacri come una dolce ,sommessa xcanzone.
«L'Europa ci ha abbandonati»
«Da noi il jihad è un affare di tribù, di lotte locali e poi i fondamentalisti pagano bene, c'è gente che prende da loro un secondo stipendio, 1500, duemila dinari al mese. Ma è l'Europa che ci ha abbandonati! Dove eravate mentre tutto questo accadeva?». Penso alla scritta sul muro della scuola professionale di Rujban dove si trova il comando del fronte Ovest e dove mi hanno ospitato: «I traditori non li vogliamo». Già: i traditori. Quanti hanno tradito in questo caos libico... Il terzo ragazzo è un giovanottone dall'aspetto rude, venticinque ventisei anni, capelli nerissimi e un gran paio di spalle. C'è qualcosa nella sua espressione che mi ha commosso profondamente. L'espressione di un uomo che per un amico avrebbe ammazzato qualcuno e sacrificato la propria vita. C'era un misto di candore e di ferocia in essa, ma anche la patetica riverenza che i poveri mostrano verso coloro che reputano esser loro superiori. Mi è capitato raramente di vedere una persona che mi abbia ispirato una simpatia così immediata. Anche se ogni guerra è il sintomo del fallimento dell'uomo come animale pensante in queste guerre c'è tuttavia coraggio, generosità, valore. Certo gli uomini vengono uccisi, o mutilati, ma chi sopravvive non porta in dono ai propri figli un seme guasto.
Lotta senza scampo: noi o loro
La voce del ragazzo stride come una raspa, è in collera ora: «Possibile che non capiate? Abu Bakr al-Baghdadi, il Califfo, è un assassino, lo sgozzerei con le mie mani, sta uccidendo la nostra gente, gli arabi, i musulmani, poi verrà il vostro turno. In Libia i terroristi controllano già gli immigrati, fanno affari d'oro, due tremila euro a viaggio, le loro nere bandiere sono a Derna, a Bengasi, a Sabratha. II gasdotto per l'Italia passa di qui. Potremmo interromperlo: questo dobbiamo fare perché vi accorgiate di noi, della nostra battaglia? Non vogliamo nessun intervento diretto, se la guerra vi fa tanto paura. Dateci armi e sistemi di comunicazione, divise, medicinali: lo fate con i curdi, perché non lo fate per noi? La lotta è senza scampo: o noi o loro!».
La riconquista della capitale
Nel 2011 ero qui sul djebel Nefussa, la montagna indomabile, allora assediata dai razzi ciecamente omicidi di Gheddafi. La marcia vittoriosa verso Tripoli cominciò proprio da Zintan, inarrestabile. Sono venuto a cercare i segni della seconda riconquista della capitale, questa volta contro le milizie islamiste e i loro alleati. «Qui c'è un esercito che risponde al parlamento eletto di Tobruk, non più la banda di Zintan. La vittoria è possibile, qui e a Bengasi», mi hanno annunciato amici libici pieni di nuovo entusiasmo. Ho ripercorso la stessa strada di allora, non c'è altra via. Ora che mi metto a scriverne mi pare di farlo da una distanza grigia che per il tempo trascorso appanna tutte le impressioni. E lo stesso itinerario dell'epoca della guerra contro Gheddafi, il confine tunisino, poi la montagna: come se nulla fosse trascorso, anni e morti inutili.
La polizia di Ras Jedir
Avvicinandosi a Ras Jedir, il posto di frontiera, non ci sono più i campi immensi dei profughi, restano baracche sfondate, resti di tende della Mezzaluna rossa dietro gli eucalipti fradici di polvere che segnano la strada. Ma l'erba non è ricresciuta, come se una maledizione avesse impresso il suo segno, per sempre, su quella terra. I cambiavalute, seduti sulla strada come prostitute in attesa, agitano mazzi di denaro con gesto da prestigiatori, tentano come allora i libici in fuga o che tornano a casa. Dovranno passare da loro. Mi fermo a un posto di polizia a comprare la marca da bollo, trenta dinari, quindici euro, ultima trovata con cui la povera Tunisia cerca di colmare casse vuote. Code interminabili di camion diretti a Tripoli sono in attesa: tutto viene inviato da qui, come allora. Il libico che mi precede ha un alterco con il poliziotto che vende i contrassegni. Si allontana imprecando. Il poliziotto si scusa: un attimo, signore! Chiude lo sportello, esce in strada con due colleghi. Afferrano il ragazzo, lo tirano dentro. Si sentono colpi, le urla disperate di un uomo picchiato. Tutti, in coda, fanno fmta di nulla. Dopo una decina di minuti lo sportello si riapre, il poliziotto mi sporge il bollino con un bel sorriso. La democratica Tunisia, l'unica primavera riuscita! Chissà, forse dovremmo essere più cauti a giudicare questi mondi complicati. Il confine è controllato dalla «banda di Misurata», gli uomini che governano Tripoli, i nemici della montagna di Zintan. Attraverso a piedi la terra di nessuno. Ho un visto per «affari», la richiesta di un permesso per giornalisti mi avrebbe costretto a mettermi sotto il controllo del «governo» di Tripoli: ma se mi interrogano devo dire che vado nella capitale. Un doganiere mi fa entrare in uno sgabuzzino sudicio: fammi vedere i soldi! Gli mostro il portafoglio dove ho lasciato solo qualche euro e poca moneta tunisina. «Ora li puoi tenere ma quando torni - mi annuncia con un ghigno minaccioso - prenderò gli altri». E si mette in tasca gli euro.
Dalle montagne alla battaglia
Un amico mi attende fuori dal posto di controllo, ora dobbiamo salire sulla montagna sfuggendo ai posti di blocco. L'appuntamento è a un distributore, pochi chilometri dopo il confine. Ragazzi mettono in mostra taniche di benzina, il carburante è razionato, lo si vende a litri, come il latte, in un Paese che vive su un pozzo di petrolio. Arriva una piccola auto rossa, un improbabile contrassegno svizzero ma nessuna targa: un ragazzo ci fa un segno, lo seguiamo. Per vie secondarie ci fermiamo davanti a una casa. Ci attendono ragazzi che stanno guardando su un canale arabo di sport il derby di Torino. Quattro anni fa avevano la televisione bloccata su «al Jazeera»: oggi la odiano perché appoggia i fondamentalisti. Arriva il via libera. Il ragazzo della auto rossa a un certo punto accosta: «Ora andate, speriamo che dio conceda alla Libia tempi migliori». La strada è dritta nel deserto, coronato da fratte secche e aride, una frangia verde, magra, polverosa, sbiadita dai venti e dai raggi del sole. Rari cammelli sembrano chini a guardare la propria ombra. Un posto di blocco: pick up con le mitragliere, uomini avvolti in mimetiche chiare, una bandiera piantata su un cumulo di sabbia. L'esercito della montagna o gli altri? Le bandiera è la stessa, le uniformi identiche. L'uomo in divisa osserva i passaporti: da chi andate? Ecco: ora sapremo cosa ci attende. Diamo il nome di un comandante. Ci restituisce i passaporti. Chiedo al mio amico: se erano gli altri cosa avresti risposto? «Avrei deciso all'ultimo momento!». Saliamo a Rujban tra grandi picchi di roccia che avanzano verso la valle come una lunghissima onda di millepiedi. In cima una piana allungata verso la pianura che invece di digradare si solleva, punta al cielo, per poi precipitare al limite dell'orizzonte su un'altra piana che non si vede. Siamo arrivati alla montagna dell'esercito dell'Ovest, che assedia Sabratha e Zauia e vuole riconquistare Tripoli.
Il colonnello Mohamed Taesh
II comandante ha una candida barba mosaica, annuncia che domani si andrà in battaglia. I ragazzi si guardano in maniera strana. Uomini che si conoscono bene e che in questi mesi hanno fraternizzato, ora si guardano come estranei e ognuno di loro è come se fosse distante da quelli che gli stanno accanto. Si scrutano come se cercassero di capire chi di loro morirà. Chi sarà ancora vivo domani sera? Io sarò vivo di sicuro, non sempre si viene uccisi, non ci sarebbero guerre se si morisse tutti. E il momento più brutto di tutti, le ore prima della battaglia. Non saranno mai più come adesso. Il colonnello cammina cento metri davanti agli altri, la sua figura si stacca netta contro le falde della montagna. Scendiamo verso la valle, verso la battaglia. Dietro a lui il soldato con la mitragliatrice pesante, poi gli altri. Presto non ci sono più né ulivi né pini, dappertutto pietra, pietra di Libia gialla e rossa sotto il sole chiusa nelle sue grandi ombre verticali. Dalla pista scavata nel fianco della montagna ogni tanto il piede fa cadere dei ciottoli che risuonavano di roccia in roccia perduti in quel silenzio nel quale era sepolto il bianco di torrenti ormai secchi. II sentiero a una sosta a mezza costa strapiomba a picco su una cresta, c'è una fonte e un sottile bosco di palme. Intorno a esse l'erba forma un anello spesso che torna a poco a poco alla terra. Soltanto quelle palme vivono in mezzo alle pietra, vive della vita continuamente rinnovata delle piante nell'indifferenza geologica. Facciamo una sosta. «Colonnello, posso scrivere il suo nome? O teme vendette?». «Noi siamo un esercito regolare, non una banda di milizia-ni. Loro sanno che scelta ho fatto e dove sono. A questo punto non posso che vincere o essere ucciso. Mi chiamo Mohamed Taesh».
(1. continua)

Paolo Gentiloni: " L'Italia resterà sempre in prima linea "

 
Paolo Gentiloni

Alla speranza delle Primavere è subentrata el mondo arabo un'atmosfera in cui si mescolano paura e disillusione. Certo, l'esperienza tunisina è ancora II a dimostrare che non tutte le promesse sono andate perdute. E l'attuale stabilità di un grande paese come l'Egitto mette l'intera regione al sicuro da rischi maggiori. Ma è difficile chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Le primavere arabe avevano seminato in Occidente una grande speranza di libertà anticipata dal discorso del presidente Obama al Cairo. II raccolto è stato magro. Non solo: al progressivo ripiegamento delle speranze «rivoluzionarie» è presto subentrata una spinta di tutt'altro genere. Dalla democratizzazione dei regimi si è passati nel giro di quattro cinque anni alla messa in discussione dei confini. L'eredità del 1916 è minacciata da una sfida senza precedenti. Daesh, il terrorismo che si fa Stato. Che taglia gole e rende schiave ragazze innocenti, ma al tempo stesso occupa territori ed eroga stipendi. È in questa brusca giravolta della storia che si colloca la crisi libica, oggi la principale minaccia alla nostm sicurezza nazionale. La Libia è stata investita dalle primavere arabe in modo del tutto anomalo. La particolare ferocia del suo dittatore e l'accentuata debolezza delle sue strutture civili hanno portato a una rimozione forzata di Gheddafi, abbattuto con il contributo determinante di un intervento militare esterno. Un intervento forse inevitabile, probabilmente subito da un'Italia che attraversava uno dei momenti di sua maggiore debolezza, certamente privo di qualsiasi progetto di ricostruzione di una capacità statale. Oggi ne paghiamo le conseguenze con il vuoto istituzionale nel quale affiorano anche vere e proprie enclaves di terroristi islamici. Errori e delusioni non possono tuttavia giustificare alcun disimpegno da parte nostra. La Libia è troppo importante. Per la nostra sicurezza, per gli approvvigionamenti energetici, per l'impatto dei flussi migratori (dei 165 mila migranti che nel 2014 hanno raggiunto le nostre coste, oltre il 90% lo ha fatto transitando per la Libia). Abbiamo un ruolo da giocare, e questo ruolo ci viene riconosciuto anche dai nostri Alleati e da tutti i paesi della Regione. L'obiettivo da raggiungere è ristabilire l'unità della Libia e avviare un percorso di ricostruzione di istituzioni unitarie e di un governo di riconciliazione tra le forze moderate presenti nei diversi campi che oggi si confrontano. So bene che si tratta di una strada stretta e in salita. Ma chi considera inevitabile, o incoraggia addirittura la divisione della Libia sta scherzando con il fuoco. Se pensare a una Cirenaica «buona» è un azzardo, rassegnarsi all'idea di una Tripolitania trasformata in una sorta di «bad company» ostello di gruppi estremisti e terroristi sarebbe un incubo. Anche perché la Tripolitania è la regione più vicina alle nostre coste e dove mag giore è la presenza di interessi economici nazionali. Dunque, una sola Libia. Secondo gli obiettivi individuati dall'inviato dell'Onu Bernardino Leon, che sta cercando di avviare il percorso di una riconciliazione nazionale. E che l'Italia appoggia anche grazie alla presenza della nostra Ambasciata, unica ancora aperta a Tripoli tra i paesi occidentali. Il messaggio dell'Italia è chiaro, l'abbiamo condiviso la scorsa settimana con i nostri principali alleati a Bruxelles, lo confermeremo martedì negli incontri previsti a Washington, lo stiamo confrontando con i principali paesi della regione. Tutti devono sostenere la mediazione Onu, sospendendo violenze e bombardamenti ed evitando la spartizione delle poche istituzioni unitarie superstiti, in primis la Banca centrale. Se la mediazione non ottenesse i risultati sperati, la rilanceremo a un livello ancora più forte. E appena si cominceranno a intravvedere i primi passi sulla via di una ricostruzione istituzionale siamo pronti a collaborare ad attività di monitoraggio odi peacekeeping sotto le bandiere delle Nazioni Unite. Il tempo corre, ma possiamo ancora impedire conseguenze peggiori per la Libia e per il nostro Paese.

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