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La Stampa Rassegna Stampa
12.09.2014 Ebraismo e parola nell'ultimo libro scritto da Fania e Amos Oz
Intervista di Elena Loewenthal a Fania Oz-Salzberger

Testata: La Stampa
Data: 12 settembre 2014
Pagina: 28
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Fania Oz-Salzberger: 'Io e mio padre Amos: così sopravvive la cultura ebraica'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/09/2014, a pagg. 28-29, con il titolo "Fania Oz-Salzberger: 'Io e mio padre Amos: così sopravvive la cultura ebraica' ", l'intervista di Elena Loewenthal a Fania Oz-Salzberger.


Elena Loewenthal        Fania Oz-Salzberger   Amos Oz


Gli ebrei e le parole (Feltrinelli)

«Ho un piccolo consiglio da dare al lettore: non cercare di scrivere un libro con tuo padre prima di avere compiuto cinquant'anni. Di lì in poi, sì che si può creare un interessante equilibrio di generazioni e punti di vista diversi». Fania Oz Salzberger è arrivata al fatidico traguardo non molto tempo fa, e l'ha celebrato proprio in questo modo: Gli ebrei e le parole (Feltrinelli) porta infatti la firma di lei e suo padre, lo scrittore Amos Oz. In questi giorni è in l'Europa e sabato sera aprirà il festival di letteratura ebraica di Roma.«Mio padre e io abbiamo scritto questo libro insieme in vera reciprocità, e ci siamo divertiti molto. Ci sedevamo in un caffè, a casa sua nel deserto, a casa mia sul Monte Carmelo, una volta persino su una barca in un lago. Parlavamo, io scrivevo sul mio laptop, citavamo fonti a memoria, le controllavo su internet. Lui diceva che i computer sono un male e internet è la fine della civiltà, l'opposto di una vera biblioteca. Io dicevo che i computer sono un bene e che internet è come un labirinto talmudico di testi e significati. Litigavamo un po', e avanti a scrivere. In fondo nelle famiglie ebraiche è sempre andata così. Questo è il segreto: amore, rispetto, disaccordo, dibattito e un continuo riscrivere i testi». Fania Oz è la primogenita dello scrittore e porta il nome di sua madre, morta quando Amos aveva tredici anni. E' storica delle idee e del pensiero politico, insegna all'università di Haifa. Ma la sua storia comincia al kibbutz di Hulda. Che cosa significa crescere in kibbutz? E' un'esperienza particolare e importante, non è vero? «Hulda era un posto molto bello e vicino alla natura, ma anche profondamente idealistico. Era il coraggioso tentativo di creare una vera giustizia sociale, senza ricchi e poveri, forti e deboli. Noi bambini vivevamo in una casa comune, ma trascorrevamo molto tempo con i genitori. Ora che ho tirato su i miei figli, mi rendo conto che al kibbutz avevamo più tempo con loro di quanto non accada in molte famiglie di città, oggigiorno! Casa dei miei era piena di libri. In kibbutz ho avuto il mio primo incontro con l'Italia, attraverso Cuore di De Amicis tradotto in ebraico. Ma solo molti anni dopo ho capito quanto i miei nonni e genitori amavano e odiavano e avevano nostalgia di quell'Europa che avevano perduto, che li aveva cacciati». Com'è diventata una storica, in particolar modo di questioni stimolanti e contraddittorie quali il rapporto fra ebrei, israeliani e Germania? «Dopo il kibbutz ho fatto il servizio militare come ogni israeliano. Qui sono stata così fortunata da diventare ufficiale dell'intelligence e imparare il lavoro di ricerca. Poi ho frequentato l'università di Tel Aviv e di Oxford. Perché storia? Forse perché è la chiave d'accesso alla tragedia e al mistero del destino ebraico. E fors'anche perché se sei la figlia di un narratore, hai voglia di uscire dalle iridescenti acque della fiction e approdare sul sicuro terreno dei fatti. Mi sono occupata di Illuminismo, ma il mio istinto mi ha poi portato verso la Germania. «Cosa è andato nel modo sbagliato? Com'è che il popolo di Goethe e Schiller, quel popolo tedesco che si paragonava agli ebrei nel loro amore per la letteratura e la filosofia, è diventato il mostro del XX secolo? Non ho trovato risposte, ma il mio cammino accademico mi ha dato molti momenti interessanti. Continuo a lavorare sull'itinerario di testi politici e l'incontro - ma anche gli equivoci - fra culture diverse. E' sorprendente quanta incomprensione derivi dalle differenze linguistiche e culturali. Gli italiani stessi sentono certamente tante dissonanze concettuali con altri membri della comunità europea. Noi israeliani siamo a volte molto distanti dal nostro migliore amico internazionale, gli Stati Uniti. Di fatto, capiamo gli europei meglio degli americani, perché molti di noi vengono da un lungo e profondo millennio di coestistenza ebraico-europea. Durante un anno sabbatico in Germania ho scritto Israelis in Berlin, cercando di decifrare la profonda attrazione che questa città esercita su molti giovani israeliani di oggi». Poi è arrivata a Gli ebrei e le parole, scritto a quattro mani con suo padre. Cosa vi ha portato a questo avvincente dialogo fra voi e la storia ebraica attraverso i testi? «Il libro è un'interpretazione del segreto della sopravvivenza ebraica attraverso i libri e la lettura in famiglia. Secondo noi esiste un antico segreto ebraico di sopravvivenza culturale, che è oggi più che mai importante per ogni cultura del mondo: se vuoi che i tuoi figli ricordino la loro cultura, la amino, la capiscano e continuino a creare entro di essa - allora leggi insieme ai tuoi figli. Leggi con loro e condividi con loro le idee che ami. Leggi al tavolo di famiglia, associa i testi al cibo e al canto. Insegna loro a discutere con i testi che amano, ma prima di tutto insegna loro ad amarli. E comincia quando sono molto piccoli, prima che siano travolti dalle facili tentazioni. Questo è sempre stato il metodo ebraico, e funziona ancora!».

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