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Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/08/2013, a pag. 5, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Obama e l’Islam, la scommessa persa ", la sua intervista a Robert Kaplan dal titolo " Costretto a sostenere Al Sisi. Con la democrazia vincono le forze anti-americane ", l'intervista di Francesco Semprini a Daniel Pipes dal titolo " Assomiglia a Jimmy Carter. Rischia di essere tagliato fuori dai giochi in Medio Oriente ". a destra, Obama inetto INFORMAZIONE CORRETTA - Enzo Nahum : " Le relazioni tra l’Egitto e l’America in naufragio " Con la sua incompetenza e mancanza di una visione strategica in politica estera, Obama e’ riuscito a perdere l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo. Il principe Bandar, Direttore del Dipartimento di Intelligence dell’ Arabia Saudita, grande amico dei presidenti americani Bush padre e figlio e di Clinton, ed Ambasciatore Saudita presso gli USA per molti anni, e’ stato mandato dal re Abdullah a coordinare con il generale El-Sisi la strategia politica egiziana includendovi, per sostegno, anche il dialogo con un molto interessato Putin. Secondo l’agenzia Debkafile, generalmente molto bene informata dati i suoi contatti con ambienti militari ed il Mossad, il 31 Luglio scorso Bandar ha fatto una visita a Mosca ed e’ stato immediatamente ricevuto dal presidente Vladimir Putin con il quale ha avuto una conversazione che e’ durata quattro ore. Probabilmente geloso di questo fatto e desideroso di sapere quello che si erano detti lui e Putin, Obama ha fatto subito inviare a Bandar un invito a venire a Washington appena gli fosse possibile, per incontrarsi con lui. Bandar non ha ancora mandato nessuna risposta all’invito. Barack Obama ha puntato tutto sulla Fratellanza Mussulmana e i suoi alleati Salafisti, tutti acerrimi nemici dell’ Occidente ed in particolare dell’America e di Israele, ed interlocutori ben disposti verso l’Iran. Malgrado questi presupposti, ha deciso di costruire la sua folle politica estera su due capisaldi del jihadismo islamico: l’Egitto di Mohammed Morsi dominato dalla Fratellanza Mussulmana e sulla Turchia dell’islamista e grande protettore di Hamas Recep Erdogan il cui partito rappresenta la versione turca della Fratellanza. Questa strategia fu rivelata dallo stesso Obama ad un esterrefatto Netanyahu durante la sua visita ad Israele la scorsa primavera e questo e’ il motivo per il quale Obama forzo’ Bibi a telefonare ad Erdogan per scusarsi per le morti dei 9 turchi (in realta’ uccisi dai militari Israeliani per legittima difesa) sulla M/V Mavi Marmara mentre questa tentava di forzare il blocco Israeliano di Gaza nel Maggio 2010. Questa “fantastica” strategia di Obama arrivo’ naturalmente alle orecchie del re saudita Abdullah, degli sceicchi degli Stati del Golfo e del capo della rivolta anti-Morsi generale El-Sisi, tutti acerrimi nemici della Fratellanza Mussulmana. Così ora il peggior presidente della storia americana puo’ includere la sua strategia medio–orientale sulla lista dei suo fiaschi. In realta’, pero’, questa e’ un vero disastro per l’America, perche’ a causa della stupidita’ e mancanza di visione del loro presidente, gli Americani sono costretti ad assistere al capovolgimento ed alla distruzione di tutta la strategia medio–orientale americana costruita dal tempo della crisi del Canale di Suez del 1956 ed alla facilitazione e all’apertura della porta araba al ritorno dell’Orso Russo che dal tempo di Sadat era stato sbattuto fuori dallo scacchiere importantissimo del Medio Oriente. La STAMPA - Paolo Mastrolilli - " Obama e l’Islam, la scommessa persa "
La critica più velenosa per Obama è quella venuta da James Traub, che parafrasando Ted Roosevelt ha descritto così su Foreign Policy la linea del presidente in Egitto: «Speak Softly and Carry No Stick», parla piano e non portare alcun bastone. I media americani non hanno dubbi: dal «New York Times» al «Washington Post», quasi tutti rimproverano alla Casa Bianca di non avere «spina dorsale», compromettendo il futuro dell’Egitto, ciò che resta della «primavera araba», e la credibilità americana in Medio Oriente. Se si ascoltano gli addetti ai lavori, però, la musica è spesso diversa. Zbigniew Brzezinski dice: «Per gli Usa la minaccia più pericolosa è quella del fanatismo religioso, e quindi dobbiamo comportarci di conseguenza». Chi ha ragione, dunque? Obama sta difendendo le poche possibilità di ricreare la stabilità nella regione, o sta perdendo il Medio Oriente? Il presidente giovedì ha condannato le violenze e cancellato l’esercitazione con gli egiziani «Bright Star», però ha rinviato lo stop agli aiuti da 1,3 miliardi di dollari. Dall’inizio della crisi il segretario alla Difesa Hagel ha parlato quindici volte al telefono col generale Al Sisi, invitandolo alla moderazione, e i risultati sono quelli che abbiamo visto. Del resto il primo agosto il segretario di Stato Kerry aveva detto che il golpe mirava a «ristabilire la democrazia», e da allora è stato difficile cambiare la percezione che in fondo Washington sta con i militari. Traub attribuisce questa scelta al passaggio dalla dottrina moralista di Bush a quella consequenzialista di Obama: George W. voleva esportare la democrazia a tutti i costi, Barack si è convertito al realismo e pensa agli effetti delle sue scelte sull’interesse nazionale. La crisi dimostra soprattutto quanto sia limitata l’influenza americana. Obama può anche tagliare gli aiuti, ma il suo miliardo impallidisce davanti ai 12 promessi da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, per sostenere i militari dopo il golpe. La rete delle alleanze è molto complicata, perché se amici come Arabia, Emirati e Kuwait stanno con Al Sisi, altri alleati come Turchia e Qatar, che aiutano gli Usa in Siria, vorrebbero riportare Morsi al potere. Se Obama critica i militari, viene accusato di essere complice degli estremisti islamici; se critica i Fratelli Musulmani, è complice di un golpe. Alienandosi Al Sisi, poi, la Casa Bianca rischia di riaprire le porte dell’Egitto alla Russia: Putin sta già dialogando con i militari egiziani, per prendere il posto degli Usa e ristabilire l’alleanza pre Camp David . E il premier israeliano Netanyahu, davanti al ritorno dei Fratelli Musulmani amici di Hamas, resterebbe al tavolo negoziale con i palestinesi appena imbandito da Kerry? La STAMPA - Francesco Semprini - " Assomiglia a Jimmy Carter. Rischia di essere tagliato fuori dai giochi in Medio Oriente "
«La risposta americana alla crisi egiziana riflette la perdita di peso e autorevolezza dell’amministrazione di Barack Obama nella regione mediorientale». È perentorio Daniel Pipes, fondatore del Middle East Forum, secondo cui gli Stati Uniti pagano le scelte miopi compiute negli ultimi anni in politica estera. Quali errori sono stati commessi sulla questione egiziana? «Obama ha sprecato tempo ed energie a criticare il comportamento del governo ad interim, sottovalutando le responsabilità della Fratellanza musulmana nell’ondata di violenze. L’approccio della Casa Bianca rivela un indebolimento degli Usa non solo rispetto all'Egitto, ma in tutto lo scacchiere mediorientale». Cosa avrebbe causato questa perdita di influenza? «Il presidente è molto più concentrato sulle questioni interne, sia per la necessità di far fronte a esigenze contingenti, sia per un miope calcolo nella modulazione delle strategie politiche. Il risultato è un generale indebolimento su tutto il fronte della politica estera, nei rapporti con Russia, Cina e Venezuela, solo per fare qualche esempio». Interrompere gli aiuti finanziari in favore del Cairo può essere una strategia efficace? «Direi che hanno ben poco peso gli 1,5 miliardi di dollari di aiuti da parte di Washington rispetto ai 14 miliardi di dollari promessi dai governi dei Paesi arabi, Qatar in testa, e questo è un altro elemento che incide sulla perdita di autorevolezza degli Usa. Non è detto che sia un punto di non ritorno, le cose possono sempre cambiare, come accaduto in passato. Stiamo vivendo una situazione simile a quella che ha caratterizzato la presidenza di Jimmy Carter». Questo che ricadute avrà sul Medio Oriente? «Il Medio Oriente è in ebollizione, sta vivendo una stagione di cambiamento profondo, cercando di svincolarsi dalle tradizionali ingerenze esterne. L’evoluzione deve fare il suo corso, né gli Usa né l’Unione europea o la Russia possono far molto ora». Washington può ancora recuperare peso nella regione? «Certo, ma nel rispetto di condizioni fondamentali, rifiutare ogni compromesso con gli islamisti, dare il sostegno, sia materiale che morale, ai partiti liberali, moderati e cosiddetti “secular”, e modulare progetti di lungo termine piuttosto che accontentarsi di risposte limitate a crisi momentanee». La STAMPA - Paolo Mastrolilli - " Costretto a sostenere Al Sisi. Con la democrazia vincono le forze anti-americane "
«Obama non può tagliare i ponti con i militari egiziani, perché vorrebbe dire consegnare il Paese agli estremisti islamici antiamericani, e non può fare molto di più per fermare le violenze». Robert Kaplan, Chief Geopolitical Analyst presso la think tank Stratfor, difende la linea scelta dalla Casa Bianca nella crisi esplosa al Cairo. Di fronte a tanta violenza, Washington non dovrebbe prendere una posizione più netta? «La nostra capacità di influenzare l’Egitto è esagerata. Sul terreno abbiamo poco potere, mentre la società è islamica e poco ricettiva alle nostre sollecitazioni». Gli Usa non dovrebbero comunque difendere la democrazia? «In Egitto questa democrazia può produrre solo un governo anti-americano, contrario ai nostri valori e interessi». Il presidente non potrebbe almeno cancellare gli aiuti? «Sarebbe un errore. I finanziamenti che diamo ai militari sono il prodotto di una scelta politica storica, che ha garantito stabilità alla regione negli anni. Eliminarli raggiungerebbe solo lo scopo di farci perdere la poca influenza rimasta, e Putin ne approfitterebbe subito per prendere il nostro posto. Teniamo presente che Mosca ha avuto un rapporto molto solido col Cairo, fino al 1972, e ci metterebbe poco a ristabilirlo». Visti i precedenti, lei è sicuro che sostenere il governo militare nato da un golpe sia nell’interesse degli Stati Uniti? «L’esecutivo guidato dai Fratelli Musulmani aveva alleanze con diversi gruppi estremistici, come Hamas a Gaza, e stava trasformando il Sinai in un nuovo Afghanistan. L’unica ragione per cui il premier israeliano Netanyahu ha accettato di tornare a sedersi al tavolo delle trattative di pace con i palestinesi è stata la presa del potere in Egitto da parte dei militari. Questi sono interessi fondamentali degli Stati Uniti». Arabia e Qatar non potrebbero prendere il posto degli Usa nel finanziare il Cairo? «Certo, lo stanno già facendo. Ma questa è un’altra ragione per non cancellare gli aiuti economici ai militari. I soldi che diamo ormai sono pochi, rispetto a quanto possono offrire altri Paesi della regione, ma hanno un alto valore politico e strategico. Garantiscono il legame fra il Pentagono e le forze armate egiziane, e quindi i nostri interessi». Per inviare la propria opinione a Informazione Corretta e Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@lastampa.it |
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