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La Stampa Rassegna Stampa
19.11.2010 Teheran, chi ci va e chi rifiuta
Michael Walzer dalla parte della libertà, Vattimo con i tiranni

Testata: La Stampa
Data: 19 novembre 2010
Pagina: 42
Autore: Maurizio Molinari-Gianni Vattimo
Titolo: «Avrebbe senso solo incontrare l'opposizione-Contro i danni dell'imperialismo»

Gli ayatollah organizzano a Teheran la giornata mondiale della filosofia. Chi ci va e chi rifiuta. Sulla STAMPA di oggi, 19/11/2010, a pag.42-43, le opinioni di Michael Walzer e Gianni Vattimo,  due scelte che qualificano chi le ha prese. Chi non ci va, Michael Walzer, intervistato da Maurizio Molinari, e chi ci va, Gianni Vattimo, che spiega perchè.
IC ha già espresso, attraverso Ugo Volli, cosa pensa del filosofo torinese. La differenza che passa tra Walzer e Vattimo è abissale, il primo difende la libertà, il secondo i tiranni.
Ecco l'intervista a Walzer, con il titolo " Avrebbe senso solo incontrare l'opposizione", di Maurizio Molinari: 


Maurizio Molinari                     Michael Walzer

 L’ unica giustificazione possibile per un viaggio a Teheran da parte di un filosofo può essere andare lì per incontrare l’opposizione al regime»: così Michael Walzer, direttore di Dissent e coscienza critica dei liberal americani, interviene sul dibattito sul World Philosophy Day indetto in Iran.

I filosofi si dividono sull’opportunità di andare a Teheran, lei cosa pensa?

«Sono contrario. Il regime iraniano non consente di studiare liberamente materie come la filosofia, viola i diritti di studio degli studenti e di insegnamento dei docenti. In tali condizioni andare a Teheran a parlare di filosofia in una cornice ufficiale non ha alcun senso. Per questo ho firmato l’appello dei contrari».

Eppure chi ritiene giusto partecipare obietta che andando si potrebbe favorire il dialogo e il confronto, portando ossigeno e idee in una società che dimostra di averne bisogno...

«Certo che in Iran c’è bisogno di idee, dibattiti e confronti di idee. Ma è un bisogno che viene dalla società, dall’opposizione che abbiamo visto sfilare nelle piazze e scontrarsi con militari e miliziani del regime. Se un filosofo vuole davvero recarsi in Iran, l’unico valido motivo per farlo sarebbe andare a partecipare a convegni clandestini, incontrando gli studenti dell’Onda verde che hanno avuto il coraggio di scendere in piazza, rischiando la vita, per contestare la legittimità di un risultato molto ambiguo alle ultime presidenziali».

Durante la Guerra fredda c’era chi andava a partecipare a eventi culturali in Unione Sovietica: qual è la differenza tra la situazione di allora e di oggi?

«È vero che c’erano uomini di cultura occidentali che amavano andare in Unione Sovietica a parlare in eventi ufficiali. Ma io non l’ho mai fatto. Era una dittatura illiberale e non c’era alcun motivo per andare lì a legittimarla. Oggi la situazione è identica. Non bisognava andare in Urss come non bisogna andare in Iran. Altra valutazione meritano invece quei tanti docenti, di filosofia come di altre materie, che a loro rischio e pericolo si recarono durante la Guerra fredda nell’Est comunista per fare seminari clandestini, andando incontro al bisogno di libertà intellettuale che quei popoli esprimevano. Proprio come adesso avviene nel caso degli iraniani».

Insomma, la sua idea è quella di filosofi militanti per la causa della libertà...

«La mia idea è che non bisogna legittimare dittature, regimi e dispotismi che opprimono i diritti dei cittadini. Uno dei più importanti è quello allo studio, all’approfondimento, a ragionare liberamente. Tutte cose che nell’Iran attuale non possono essere fatte. Chi dovesse decidere di andare a Teheran deve essere consapevole che andrà a legittimare chi impedisce il libero insegnamento della filosofia».

Segue il testo di Gianni Vattimo, dal titolo " Contro i danni dell'imperialismo "


Gianni Vattimo

Il punto che intendo proporre oggi qui, sapendo che è di intensa attualità per la filosofia e la politica che ci riguardano tutti, è che la questione dell’universalismo e della verità non può essere risolta da un punto di vista esclusivamente teoretico. Il terzo termine del titolo del mio intervento («Universalismo, verità, tolleranza») si riferisce proprio a questo. In un saggio che io qui assumerò come guida per la mia discussione ( Solidarietà o oggettività? ), Richard Rorty ha tentato di rintracciare le origini dell’universalismo filosofico in un preciso momento della storia del pensiero greco, quando cioè la polis aveva cominciato a espandere i propri commerci al di là dei confini in cui prima era abituata a svolgerli. In questo momento la filosofia greca iniziò a interessarsi del problema di come esprimere posizioni capaci di ottenere il consenso anche di coloro che non erano cittadini delle poleis greche, cercando dunque di porre le basi di una sorta di dominio non violento su tali popoli.

Senza discutere qui della validità di questa ipotesi di Rorty, dobbiamo ricordare che tutti noi cultori di filosofia ci siamo abituati a considerare questa «scoperta» dell’universalità come una tappa positiva nel progresso verso la civilizzazione e l’umanizzazione. Ancora oggi, pensatori di tutto rispetto come Apel o Habermas ritengono che non sia possibile fare una qualche affermazione vera senza rivendicare, almeno implicitamente, la sua validità erga omnes . E questo omnes si riferisce non solo a coloro che giocano il nostro gioco linguistico o ai nostri concittadini: ma all’umanità in generale, rispetto alla quale la nostra affermazione rivendica la propria validità in nome della ragione stessa.

Ma nella condizione attuale che Heidegger ci ha insegnato a chiamare la fine della metafisica, e che Nietzsche descrive come l’avvento del nichilismo, proprio questo appello alla validità universale è diventato sommamente sospetto. Abbiamo imparato a domandare chi è che parla, senza lasciarci spaventare dalla pretese che sia la ragione stessa. Nel mondo della fine della metafisica, ogni pretesa di universalismo deve fare i conti con il fenomeno della globalizzazione, che i filosofi non possono limitarsi a osservare da fuori: e ciò perché la storia e la crisi dell’imperialismo e del colonialismo occidentale hanno oggi una rilevanza filosofica decisiva. Non esageriamo se pensiamo che anche l’universalismo delle filosofie, anche di quelle che sorgono e si affermano al di fuori della tradizione europea, è uno dei danni collaterali prodotti dall’imperialismo occidentale. È come se l’Occidente, con la sua pretesa di parlare in nome della Ragione stessa, avesse contaminato anche altre culture, spianando la strada a una lotta tra diverse pretese di verità assoluta.

In Italia abbiamo a tal riguardo un motto paradossale ma non troppo: «Grazie a Dio, sono ateo». Che potrei tradurre così: proprio perché sono cristiano non credo alla verità. La sola verità universale che la filosofia ha da offrire al mondo è quella che si incontra nel Vangelo, là dove Gesù, interrogato su come riconoscere il Messia al momento del suo ritorno alla fine dei tempi, risponde esortando a non credere a chi dice eccolo qui, eccolo là; senza dare alcuna altra indicazione positiva. Non è molto, ma può avere un decisivo significato liberante.

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