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La Stampa Rassegna Stampa
30.07.2010 L'arte rubata dai nazisti, quel 'furto legalizzato'
Il racconto di Bruno Ventavoli

Testata: La Stampa
Data: 30 luglio 2010
Pagina: 72
Autore: Bruno Ventavoli
Titolo: «La battaglia per i Velasquez e i Renoir rubati al barone ebreo»

Interessante l'articolo di Bruno Ventavoli sulla STAMPA di oggi, 30/07/2010, a pag.72, con il titolo " La battaglia per i Velasquez e i Renoir rubati al barone ebreo ". Il " Legalisierte Raub" il furto legalizzato, come fu definita la razzia delle opere d'arte appartenute agli ebrei dai nazisti.
 Per due motivi, per la storia che racconta per le informazioni sulla politica dell'Ungheria di oggi:
Ecco il pezzo:


Bruno Ventavoli              Il ladro

E’ la più grande causa per la restituzione di opere d’arte depredate agli ebrei ai tempi dell’Olocausto. Dopo vent’anni di richieste fallite gli eredi di Mór Lipót Herzog, banchiere budapestino con il gusto dell’arte, tornano all’attacco. Martedì scorso si sono rivolti a un tribunale americano per citare in giudizio il governo ungherese e rientrare in possesso di una quarantina di quadri che l’avo aveva accumulato. I più sono esposti al Museo delle Belle Arti di Budapest, sei El Greco, Courbet, Van Dick, Velázquez, Renoir, Manet, Cranach il vecchio. Il catalogo vale oltre 100 milioni di dollari. La memoria ferita dei discendenti molto di più.
La storia di questo immenso patrimonio artistico risale all’inizio del secolo breve e sanguinario. Mór Lipót Herzog era celebre nella Budapest Belle Époque. Come molti altri ebrei di successo aveva ottenuto il titolo di barone dall’imperatore. Sapeva fare affari, ma più dei soldi amava il bello. E nel corso della sua vita aveva costruito una delle più ricche collezioni private della mitteleuropa. Tele di artisti famosi, mobili, argenti, porcellane. Il suo palazzo era un museo, perfetta scenografia dell’ebraismo assimilato e vincente della Duplice Monarchia, quando secoli di persecuzioni sembravano schiacciati per sempre nel passato.
Nel 1934 il banchiere morì e raccomandò alla moglie il tesoro di bellezza. Anche perché i tempi felici impallidivano nel ricordo. Nell’Ungheria fascisteggiante dell’ammiraglio Horthy i fantasmi dell’antisemitismo ritornavano prepotenti. Con lo scoppio della guerra arrivò la tragedia. L’Ungheria, ansiosa di recuperare le storiche terre assegnate agli stati confinanti dopo l’ingiusto trattato di pace di Trianon del 1920, scese in campo a fianco della Germania nazista. Un figlio di Herzog fu spedito al lavoro coatto sul fronte russo e morì nel ‘43, insieme a migliaia di altri ebrei e oppositori politici, un altro era nella lista per Auschwitz e riuscì a salvarsi all’ultimo.
Quando la guerra era ormai perduta, e Horthy stava cercando una via d’uscita al massacro del Paese, le croci frecciate di Szálasi fecero un colpo di stato alla fine del ‘44 per continuare a oltranza a fianco dell’alleato germanico. Il nuovo governo collaborò con Eichmann e in pochi mesi gli ebrei ungheresi, circa mezzo milione, vennero deportati o trucidati in modi spicci, risparmiando anche sulle pallottole delle fucilazioni.
Quel che restava della famiglia Herzog cercò di salvare la collezione che comprendeva circa 2500 pezzi nascondendola e seppellendola in una fattoria di campagna. Si erano anche affidati a Dénes Csánky, pittore e direttore del museo di Belle Arti, sperando di trovare una sponda sicura, nel nome dell’estetica. Non fu così. Gli scherani del regime scoprirono il nascondiglio. Eichmann scelse per sé le opere più belle, ed espose i trofei nel suo ufficio. Una parte finì chissà dove, rubata dai volonterosi carnefici di ebrei. Molte andarono invece nel museo, che secondo l’orgoglioso direttore, ora avrebbe potuto competere con il Prado.
Dopo la guerra, le opere d’arte avrebbero dovuto tornare agli eredi fuggiti in America. Ma la storia si mise di nuovo di traverso. Il tesoro era passato nelle mani dei comunisti. Quei quadri esposti al museo erano adesso proprietà del popolo. Una delle figlie del barone banchiere, che viveva a New York, per non dimenticare quei colori, quelle pennellate, che aveva avuto davanti agli occhi bambini, tagliò dai cataloghi le pagine con le illustrazioni dei «suoi» quadri, e le appese alle pareti domestiche.
Con il crollo del Muro, l’entusiasmo della democrazia nell’est europeo, gli Herzog pensarono di poter riavere ciò che era loro. Austria e Germania avevano già cominciato a restituire tesori saccheggiati agi ebrei, l’Ungheria, al di là delle buone intenzioni, faceva orecchie da mercante. Nella battaglia per la restituzione ebbero l’appoggio di personaggi americani importanti, come Hillary Clinton ed Edward M. Kennedy. Proposero ad un certo punto anche di fare a metà dei tesori. Niente. Dopo vent’anni di carte, perizie, conferenze di esperti, nel 2008, un tribunale ungherese stabilì che le opere dovevano restare in Ungheria.
Ora si apre un nuovo capitolo. I discendenti del barone Herzog, sono una dozzina, rivogliono ciò che appartenne all’avo e si sono rivolti a un tribunale di Washington. Lo fanno per amore della giustizia, dell’arte, della memoria. E anche per rifarsi da vent’anni di frustrazioni accumulate nelle trattative con lo Stato ungherese. E non sarà semplice. Anche perché in Ungheria la destra radicale è rinata, si risente sproloquiare che gli ebrei hanno in mano soldi, terre, mezzi di informazione, e che il Nobel Kertész, che ha scritto della sua infanzia nei lager («Essere senza destino»), non è un vero, puro, ungherese. E alcuni di questi politicanti che rifiutano l’etichetta di antisemiti, ma sostengono che gli ebrei sono «troppo» potenti, siedono in Parlamento.

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