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La Stampa Rassegna Stampa
13.09.2009 Ci furono anche dei tedeschi per bene. Non molti, ma ci furono
Da Berlino, Alessandro Alviani

Testata: La Stampa
Data: 13 settembre 2009
Pagina: 15
Autore: Alessandro Alviani
Titolo: «Berlino, dove i tedeschi nascondevano gli ebrei»

"Berlino, dove i tedeschi nascondevano gli ebrei", è il titolo del pezzo di Alessandro Alviani sullaSTAMPA di oggi, a pag.15. Dopo decenni di ricerche, sembra fossero circa 4 mila i tedeschi che aiutaro gli ebrei a nascondersi nella capitale della Germania. Non molti, a dire il vero, ma almeno qualcuno c'è stato. Ecco il pezzo:

 La notte dei cristalli, 8-9 novembre 1938

Mancano solo i materassi a terra e l'armadio piazzato davanti la porta per camuffare l'ingresso. Per il resto è rimasto tutto come allora: le grosse tavole di legno a formare il pavimento, il piccolo forno in un angolo, le pareti screpolate. E prive di finestre. Perché nessuno, in quel lontano 1943, doveva scoprire che in questa stanza non più grande di dieci metri quadrati al primo piano di un palazzo della Rosenthaler Straße a Berlino l'allora fabbricante di scope e spazzole Otto Weidt nascondeva una famiglia ebrea. Weidt aveva capito che ormai non poteva più corrompere la Gestapo per impedire la deportazione dei suoi dipendenti (quasi tutti ebrei), come aveva fatto fino ad allora. Per questo ricorse all'ultimo mezzo che gli restava: nasconderli. Fu così che per mesi l'esistenza di Chaim Horn, di sua moglie Machla e dei loro due figli, Max e Ruth, rimase appesa a una minuscola stanza in fondo al laboratorio di Weidt. Un rifugio di fortuna, simile alle decine di nascondigli sparsi per Berlino in cui migliaia di ebrei provarono a scampare ai lager e a cui è dedicata ora una mostra fotografica ospitata proprio nell'ex fabbrica di Weidt, trasformata oggi in museo. Un piccolo viaggio attraverso gli scatti di Sibylle Baier e Daniela Friebel per scoprire cos'è rimasto oggi di quei luoghi in cui passava il sottile confine tra la vita e la deportazione verso una morte certa.
Nell'ottobre del 1941 i nazisti avevano iniziato a rastrellare gli ebrei di Berlino e a spedirli nei campi di concentramento; meno di due anni dopo, nel febbraio del 1943, lanciarono la «Fabrikaktion» per completare il lavoro e rendere «judenrein» la capitale del Reich. Agli ebrei non restava che una strada: provare a far perdere le proprie tracce. Tra il 1942 e il 1943 nella sola Berlino furono tra 5.000 e 7.000 quelli che scomparvero apparentemente nel nulla, trasformandosi in «U-Boote» (sommergibili), come vennero ribattezzati. Gente come Chaim Horn. O come Erich Wolff, rimasto nascosto per quasi mille giorni negli scantinati di una chiesa nella Fehrbelliner Straße. O ancora come Ella Deutschkron e sua figlia Inge, che, scampate a un bombardamento, fuggirono nel 1944 nella vicina Potsdam e presero in affitto sotto falso nome un'ex stalla.
Chi si nascondeva non solo era costretto a spostarsi di continuo (in media ogni «U-Boot» cambiò dai 5 ai 7 nascondigli), ma, siccome non avrebbe mai ottenuto la tessera annonaria che dava accesso ai generi alimentari già razionati, dipendeva in tutto e per tutto dal mercato nero o dagli amici. La storia degli «U-Boot» è infatti indissolubile da un'altra storia: quella delle migliaia di piccoli Schindler che, a differenza dell'imprenditore tedesco che salvò oltre mille ebrei impiegandoli nelle sue fabbriche, sono caduti nel dimenticatoio. Eroi silenziosi come Walter Hellige, che trasferiva gli ebrei da un covo all'altro nascondendoli nell'auto con cui trasportava il pane; o come Horst Rothkegel, che, quando nell'ottobre del 1944 assunse l'incarico di cappellano della chiesa della Fehrbelliner Straße, si trovò a occuparsi non solo delle anime, ma anche di Erich Wolff, e che soltanto trent'anni dopo scoprirà che negli scantinati della chiesa si nascondeva anche un altro ebreo, Karl Müller.
Secondo Beate Kosmala del Memoriale alla resistenza tedesca sono quattromila gli «aiutanti» tedeschi identificati finora, persone che dopo la guerra tornarono alle loro occupazioni quotidiane, chiudendosi nel silenzio. Bisognerà aspettare fino al 1997 per la prima ricerca sistematica sulle loro storie. Grazie al loro aiuto a Berlino 1.700 ebrei riuscirono a salvarsi. Tra loro non ci fu la famiglia Horn. Nell'ottobre del 1943, su segnalazione di una spia, la Gestapo fece irruzione nella stanza in fondo al laboratorio di Otto Weidt.
L'imprenditore tedesco riuscì a scamparla dopo un interrogatorio. Chaim, Machla, Max e Ruth Horn furono catturati e spediti ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno.

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