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La Stampa Rassegna Stampa
05.10.2008 Salvate il soldato Shalit
Le considerazioni di A.B.Yehosua

Testata: La Stampa
Data: 05 ottobre 2008
Pagina: 1
Autore: A.B.Yehoshua
Titolo: «Salvate il soldato Shalit»

Sulla STAMPA di oggi, 05/10/2008, a pag.1-39, le considerazioni di A.B.Yehoshua su Gilad Shalit, tuttora prigioniero di Hamas, dal titolo " Salvate il soldato Shalit ":

All’incirca una settimana fa io e sedici miei colleghi, scrittori e poeti, abbiamo inviato una lettera al dimissionario capo del governo, signor Ehud Olmert, sulla questione di Gilad Shalit, prigioniero di Hamas da più di due anni nella Striscia di Gaza senza che la trattativa avviata per la sua liberazione abbia dato alcun frutto.
Naturalmente non abbiamo sconfessato gli sforzi del governo e di chi ne è a capo di ottenere la sua liberazione.

Ma poiché le trattative sono giunte a un punto morto per via del grande divario tra la pretesa di Hamas di ottenere la liberazione di 1500 prigionieri palestinesi e la disponibilità di Israele a rilasciarne solo 450, Gilad Shalit rimane prigioniero e in pericolo di vita. Le probabili condizioni in cui è tenuto recluso e l’instabilità della situazione della striscia di Gaza, in cui varie milizie sono in permanente conflitto, suscitano il timore che il suo destino non sia diverso da quello del navigatore dell’aeronautica militare Ron Arad, caduto prigioniero in Libano negli Anni Ottanta. Nei primi anni della sua cattura Israele mantenne dei contatti con i suoi carcerieri ma poi, nel garbuglio delle trattative per la sua liberazione, di lui si perse ogni traccia.
Il dibattito in Israele non verte unicamente sul numero di prigionieri palestinesi da rilasciare in cambio della liberazione di Shalit ma sul principio dello scambio in sé, e poiché io e alcuni miei colleghi abbiamo posizioni chiare in proposito, ci terrei a esporle.
Fin dall’inizio dell’insediamento in Terra di Israele gli ebrei sono stati consapevoli che si sarebbero trovati immancabilmente in minoranza di fronte ai loro vicini-nemici arabi, anche nel caso di forti ondate di immigrazione. Per questo motivo se uno di loro fosse caduto in ostaggio, o fosse stato rapito, ci si sarebbe dovuti aspettare la richiesta di scarcerazione di un alto numero di detenuti per il suo rilascio, e poiché ottenere la liberazione di un fratello prigioniero è un principio sacro agli occhi degli ebrei, sia nella diaspora che nel loro stato indipendente, era ovvio che gli arabi ne avrebbero approfittato.
E infatti, durante i numerosi conflitti tra arabi e israeliani - nel 1948, 1956, 1967 e 1973 - quando soldati israeliani caddero nelle mani di giordani, siriani ed egiziani, Israele non si mostrò mai esitante e, non appena firmata la tregua, inoltrò una proposta di rilascio di un alto numero di prigionieri di guerra arabi in cambio di una manciata di suoi soldati. È vero che talvolta l’attuazione dell’accordo fu ritardata per la volontà di egiziani o siriani di infierire su Israele, farsi vanto dei prigionieri in loro mano o per la pretesa araba di liberare, nel quadro di un’intesa, anche terroristi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Ma la questione del prezzo da pagare non è mai stata tema di dibattito in Israele.
Tale principio è cambiato nel momento in cui si è cominciato ad avere a che fare con le organizzazioni terroristiche. Poiché i loro componenti non sono ritenuti combattenti bensì attentatori, sia che essi siano infiltrati da oltre frontiera o residenti nei territori occupati o a Gerusalemme Est, il loro status non rientra nella definizione di «prigionieri di guerra» e il principio di un reciproco scambio non può essere attuato. Sussiste inoltre il timore che la liberazione di terroristi possa incoraggiare nuovi attentati perché chi viene arrestato per atti di terrorismo può sperare in una liberazione rapida nel caso i suoi compagni rapissero un cittadino o un soldato israeliano, in Israele, in Cisgiordania, o magari anche all’estero. Un esempio della determinazione israeliana di non piegarsi alle pretese dei terroristi lo si ebbe durante le Olimpiadi di Monaco nel 1972 quando la Germania, su richiesta del governo di Gerusalemme, tentò un blitz che portò alla morte degli ostaggi. Un altro esempio ci fu nel 1976, quando un commando israeliano volò a Entebbe, a migliaia di chilometri di distanza da casa, per liberare i passeggeri di un aereo Air France dirottato da alcuni terroristi con la complicità dell’allora dittatore dell’Uganda Idi Amin.
Da allora, tuttavia, di tanto in tanto Israele si è trovato costretto ad accogliere le richieste di scambio di prigionieri con organizzazioni terroristiche palestinesi, per esempio dopo la prima guerra del Libano quando centinaia di prigionieri palestinesi furono rilasciati per ottenere il ritorno di un pugno di soldati israeliani in mano all’organizzazione integralista palestinese di Achmed Jibril.
In questo genere di accordi Israele ha cercato ovviamente di creare una differenziazione tra terroristi con le «mani sporche di sangue», diretti responsabili di uccisioni e stragi, e loro compagni, condannati a pene detentive più brevi per aver dato loro appoggio. Ed è questa l’origine delle divergenze relative ai nomi dei prigionieri da rilasciare nella trattativa che si trascina da più di due anni tra gli esponenti di Hamas nella striscia di Gaza e il governo israeliano e che ha impedito finora la liberazione del soldato Gilad Shalit.
La lettera di noi scrittori al primo ministro Olmert propone un nuovo approccio alla questione: smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e trattare con i suoi leader come con i vertici di uno Stato nemico, come si fece a suo tempo con la Giordania, l’Egitto e, oggi, con la Siria. La striscia di Gaza è un territorio dai confini ben definiti, con un governo ostile a Israele e un esercito armato contro il quale lottiamo come in passato abbiamo lottato contro gli Stati arabi che ci avevano dichiarato guerra. Talvolta si ha l’impressione che quando si appiccica a qualcuno l’etichetta di «terrorista» le sue colpe diventino più gravi. Ma le cose non stanno così. La Germania nazista non era uno Stato terrorista eppure era pericolosissima. I suoi soldati indossavano una divisa ed eseguivano le loro terribili azioni in nome di un regime liberamente eletto che fu necessario annientare per eliminare il pericolo che esso rappresentava. L’Iran, pur essendo una nazione nemica, non è uno Stato terrorista. Tale fatto non attenua però il pericolo da esso rappresentato né la determinazione di Israele a volersi difendere a ogni costo.
Nel caso quindi che un soldato israeliano cada nelle mani del regime di Teheran ecco che lo scambio dei prigionieri dovrebbe avvenire in base alle norme che a suo tempo regolavano scambi simili con la Giordania (dopo la guerra del 1948), con l’Egitto e con la Siria (dopo le guerre del 1967 e del 1973).
Non vi è dunque alcun bisogno di distinguere tra terroristi dalle «mani sporche di sangue» e soldati. I combattenti di Hamas che lanciano razzi su un quartiere residenziale della cittadina israeliana di Sderot hanno le mani sporche di sangue almeno quanto il loro collega che fa scoppiare una bomba in un caffè di Gerusalemme.
Con la lettera al capo del governo noi scrittori abbiamo cercato di rendere più facile, sotto un profilo morale, la decisione di proseguire la trattativa per il rilascio del giovane soldato che langue in una cella della striscia di Gaza in condizioni durissime. Nel caso infatti che Gilad Shalit non dovesse farcela, non è da escludere che ci troveremo costretti a rilasciare quattrocento prigionieri palestinesi in cambio di un soldato morto anziché di uno vivo, come è già avvenuto due volte in passato con Hezbollah nel Libano.

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lettere@lastampa.it

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