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La Stampa Rassegna Stampa
18.07.2008 Non è un angelo custode, ma un cittadino arabo che lavora per clienti ebrei ortodossi
una professione raccontata nel reportage di Francersca Paci

Testata: La Stampa
Data: 18 luglio 2008
Pagina: 0
Autore:
Titolo: «»

Sulla STAMPA di oggi, 18/07/2008, a pag.15, con il titolo "Io, l'arabo tuttofare nel giorno di Shabbat", un articolo di Francesca Paci.

Un paio d’anni fa sotto gli alberi di pepe che costeggiano Rehov Sorotzkin, una stradina nel quartiere ultraortodosso di Mattersdorf, alla periferia nord di Gerusalemme, è spuntata una piccola baracca di legno. Ogni venerdì al tramonto un uomo con la taqiya in testa, lo zucchetto musulmano, parcheggia il taxi lungo il marciapiede, toglie il lucchetto alla porta e si siede sull’uscio, indifferente al via vai di studenti talmudici con riccioloni lungo il volto e cappello nero. All’ora della preghiera l’uomo srotola il tappetino e si genuflette mormorando «Allah bismillah», nel nome di Allah. Le donne con la parrucca e le pesanti calze nere che escono dal supermercato di fronte non ci fanno caso: è capitato a tutte di aver bisogno di lui. Hassim Abu Ali è l’angelo custode che si occupa delle loro famiglie durante lo shabbat, quando la legge ebraica proibisce qualsiasi attività, compreso cucinare, guidare, accendere la luce o il riscaldamento, e l’unica alternativa è ricorrere al «goy shel shabbat», il gentile del sabato.
«È un lavoro come un altro» dice in ebraico Abu Ali. Un impegno di appena ventiquattr’ore una volta alla settimana, per giunta ben retribuito. Sul tariffario non si scherza: lo stabilisce il rabbino locale, prezzi fissi e niente sconti. «Per spegnere l’interruttore o azionare l’aria condizionata prendo 30 schekel, circa 6 euro, per accompagnare una partoriente in ospedale almeno tre volte tanto. In un mese guadagno 1.600 schekel». Quanto un operaio palestinese di Nablus dopo trenta giorni da imbianchino clandestino nella cittadina ultraortodossa di Bnei Barak, vicino Tel Aviv.
Prima di comprare il taxi, nel 2002, Abu Ali faceva il conducente d’autobus, paga da fame, stress, orari pesanti. Un giorno decise di mettersi in proprio, sfidando i mille muri invisibili della Città Santa. «Ho 52 anni, cinque figli da mantenere e un solo stipendio, speravo di sistemarmi» continua. Fu una delusione. Soprattutto se conti di prendere a bordo clienti nel bel mezzo della seconda Intifada e vieni dal quartiere arabo di Beit Zofafan, a Gerusalemme est, dove il minareto domina un ammasso di palazzine scalcinate tappezzate di volantini con la foto dei “martiri” palestinesi.
«Un collega autista mi suggerì di presentarmi al rabbino del nuovo quartiere ebraico Ramat Shlomo e propormi per i servizi del sabato». Hassim Abu Ali è un uomo semplice, tutto famiglia, moschea, uno refrattario alla politica. Non si fece troppe domande. Ignorava la professione di “goy shel shabbat” e i nomi illustri che l’avevano preceduto, come l’ex segretario di stato americano Colin Powell e il regista Martin Scorsese, entrambi, in gioventù, “aiutanti” part time dei vicini di casa ebrei. Ma il rabbino lo bocciò a causa di una maximulta con sospensione della patente. Ritentò a Mattersdorf e fu più fortunato.
I compaesani di Beit Zofafan pensano che Abu Ali faccia il tassista, il tassista e basta. Lo biasimerebbero, il palestinese amico degli ebrei? Lui preferisce omettere loro i particolari ma non per imbarazzo: «Tutti lavorano per gli israeliani. Io però non voglio guai». I clienti ultraortodossi lo rispettano: «Se li incontri per strada in un giorno qualsiasi non salgono sul taxi di un arabo ma durante lo shabbat si fidano solo di me».
La baracca di Rehov Sorotzkin è ormai un punto di riferimento. Il quartiere è pieno di locandine con l’indirizzo e il numero di cellulare. Telefonare in caso d’emergenza è consentito dalla legge ebraica. Ma spesso Abu Ali anticipa il bisogno: «Giro per le strade e le persone mi chiamano dalla finestra, quasi fossi un amico». Sarebbe bello, dice, che quest’armonia contagiasse l’intera città: «Quando faremo pace Gerusalemme sarà il paradiso, ma non io non ci sarò più. E neppure i miei figli». Vive il presente. Fin quando la tv con le immagini dello scambio dei prigionieri con Hezbollah non lo ricaccia indietro nella Storia: da una parte il dolore degli israeliani, dall’altra la soddisfazione degli arabi, in mezzo lui, a tentare di colmare col taxi sessant’anni di distanza.

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