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La Stampa Rassegna Stampa
28.02.2008 A Moni Ovadia laurea "dishonoris causa"
la meriterebbe per i suoi continui attacchi a Israele

Testata: La Stampa
Data: 28 febbraio 2008
Pagina: 35
Autore: Moni Ovadia
Titolo: «L’ebreo ingombrante»

Fino dove arriva l'elogio e l'onore a un ebreo che attacca Israele.
Per dovere di cronaca riportiamo la lectio magistralis di Moni Ovadia per il conferimento della laurea honoris causa a Pavia. Segnaliamo la frase che abbiamo sottolineato
Da La STAMPA del 28 febbraio 2008:


Sono il secondogenito di due fratelli e quando nacqui, a Plovdiv in Bulgaria, mio fratello maggiore e primogenito, Samuil, aveva cinque anni e mezzo. La Bulgaria si avviava allora a divenire un paese del blocco comunista; erano gli anni dello stalinismo permeati dalla grande vittoria contro il nazifascismo e mio fratello maggiore era stato inquadrato fra i pionieri del popolo con tanto di bustina militare e fazzoletto rosso. La mia nascita, com’è ovvio e frequente nei confronti dei nuovi nati, aveva polarizzato le attenzioni affettive e le coccole più calorose sulla mia personcina, a quanto mi raccontano graziosetta e paffuta. Mio fratello Samuil, che da piccino piccino era di un’aristocratica bellezza, un Amleto in erba, dovette vivere la mia comparsa come un’usurpazione ed un giorno, in preda ad un accesso misto di gelosia e indignazione politica, si avventò contro la mia culla e cercò di strangolarmi al grido di: «toi es fascist» che tradurrei in italiano con «quello è un fascista!». Se avessi avuto la capacità di capire e di reagire, gli avrei ricacciato l’insulto in gola con un sacco di legnate, ma allora dovetti subire e lasciare ai miei genitori il compito di ristabilire le proporzioni. Da alcuni anni però mi è capitato spesso di ritornare su quell’episodio e di riflettere sulle cause di quella reazione di mio fratello con il quale, con il trascorrere degli anni, si è poi stabilito un forte legame affettivo e di solidarietà. Mio fratello Samuil non aveva certo reagito all’ingombro fisico della mia personcina, troppo minuscola per essere fastidiosa, ma a quello affettivo che era enorme e che comprimeva il suo «spazio emotivo». È una sindrome che coglie frequentemente chi arriva per primo e ritiene che lo spazio, il tempo e l’energia che occupa, siano esclusivamente suoi fino a quando non compare l’intruso che rivendica la sua parte per il solo fatto di esserci. \
L’ebreo è sin dall’antichità il fratello minore, il piccolo, non il fratello maggiore. La sua consistenza numerica è esigua, al di là delle promesse incoraggianti («Sarete numerosi come i granelli di sabbia sulle rive dei mari e come le stelle in cielo»), anche se quell’esiguità di popolazione corrisponderà ad un ingombro immenso nella spiritualità, a partire dall’assenza materica del divino. L’ebraismo inoltre inaugurerà l’universalismo dell’essere umano, occuperà il futuro, dimensione totalmente ostile per il concetto idolatrico della ruota dell’eterno ritorno, dilatazione di un presente ipertrofico, affermerà l’universalismo come accesso all’uguaglianza. Il divino del monoteismo ebraico, il tetragramma ineffabile si dichiarerà «Dio» dell’intero genere umano con particolare predilezione per lo schiavo e lo straniero e ad essi affiderà il compito di redimere il genere umano.
Affidato ad una forza centrifuga senza controllo, liberato nel mondo dell’antichità idolatrica, un tale messaggio sarebbe stato deflagrante, insopportabile per la struttura socio-antropologica di quell’umanità. Gli ebrei comprimono il proprio ingombro universalista dentro un particolarismo desunto da un’elezione della responsabilità. Questa elezione è espressa in un patto sacerdotale esclusivo direttamente con il divino, berith milà, patto della circoncisione, e permette di affidare la relazione degli ebrei con il resto dell’umanità al patto noachita, riducendo a minor ingombro l’alterità ebraica. \
Gran parte del mondo cattolico e cristiano \ rispose all’ingombro spirituale ebraico con persecuzioni e stermini, contribuendo ad avviare l’Occidente verso la bancarotta fraudolenta della Shoah. Duemila anni dopo che un giovane ebreo era salito sulla croce, saliva sulla croce di Auschwitz l’intero popolo ebraico con un milione e mezzo di bambini. Un bimbo in particolare – condannato dai nazisti all’impiccagione per una ridicola trasgressione – che a causa del suo esile peso agonizzò più di mezz’ora prima di rimettere l’anima al Creatore, divenne per una certa teologia cristiana l’incarnazione del Cristo del Duemila. Ma sulla croce del Golgota nazista non sono saliti i cristiani in quanto tali, ma gli ebrei in quanto tali, di educazione cristiana invece erano tutti i carnefici. Il sacrificio più immane di quel diluvio, colpì il popolo della yiddishkeit, l’ebraismo ostjudish, popolo in tutto e per tutto per cultura, lingua, identità, profonde strutture dell’emozione intraducibili in parole, sentimento di appartenenza, fede, spirito di redenzione, musica, canto, letteratura, tradizioni. E colpita a morte fu la sua impareggiabile lingua, lo yiddish voce di esilio, condizione dello spirito prima ancora che lingua. \
Il popolo dello yiddish è stato un capolavoro di umanità: senza confini, senza frontiere, senza eserciti, senza burocrazie, senza deliri nazionalisti. Un popolo con la sua patria portatile, la Torah, che sapeva vivere a cavallo dei confini, fra cielo e terra, tenendo per mano l’ineffabile Dio del monoteismo come un compagno di giochi, rispettandone la maestà ma denunciandone contemporaneamente la correità nei mali del mondo. Un popolo di uomini semplici e sapienti che glorificavano l’uomo fragile e facevano della fragilità la potenza di chi accetta la sfida di redimersi redimendo il Santo Benedetto, capaci di vertigini di pensiero in cui il più umile si misurava con le asperità del sapere ebraico, capaci di stupore estatico di fronte ad ogni più insignificante manifestazione del creato e di pietas per il soffrire di ogni essere vivente, goffamente belli con i loro cernecchi svolazzanti ai lati delle tempie (ho sempre pensato che Gesù sia stato ritratto coi capelli lunghi perché aveva delle peyòt lunghe come un super khassid e così lo rappresenterò in un mio prossimo spettacolo) erano persino malinconicamente sublimi nei loro difetti e nelle superstizioni, separati dal mondo che li circondava ma non chiusi ad esso, ai suoi umori, ai suoi suoni, alle sue musiche e alla sua gente buona, sognatori ed umoristi per vocazione, inventori dell’umorismo ferocemente autodelatorio come rimedio contro l’idolatria e la violenza.
Questo «popolo della domanda che rimane aperta anche dopo che la bocca si è chiusa» era un ingombro insopportabile per un mondo brutale posseduto dal demone dell’odio, del nazionalismo, animato da pulsioni di morte, dalla brama di risposte perentorie, di supremazia. È stato così facile annientarlo perché era solo e indifeso, era troppo per un mondo così infame e violento: «E chi è mai un grande ebreo del passato di fronte ad un piccolo ebreo di oggi, un semplice ebreo di Polonia, di Lituania, di Volinia. In ogni ebreo urla un Geremia, ruggisce un Giobbe disperato, in ogni piccolo ebreo un re scettico canta il suo canto d’Ecclesiaste» (Itzkhak Katzenelson, Canto del popolo ebraico massacrato, Canto IX, Ai cieli). Al loro ingombro inespresso carico di energia spirituale e poetica, ho dedicato gran parte della mia vita, convinto che essi ci abbiano lasciato in eredità la loro incessante interrogazione per costruire un futuro fondato sulla fragilità. Oggi l’ebreo ha perso questi statuti, li cede in cambio di certezze, di confini, di forza, di status sociale autorevole, anche se talora il suo ingombro pregresso riaffiora: come nel caso dei deliri di un dittatore squalificato in cerca di facili consensi ed è il caso del presidente iraniano Ahmadinejad.
Un tempo l’ebreo era come lo zingaro, oggi lo zingaro è l’ebreo, porta l’ingombro che l’ebreo ha accantonato. L’antico ingombro dell’ebreo si specchia sempre più spesso negli occhi di un vecchio palestinese che infrange il suo sguardo contro un brutto muro di cemento elettrificato o negli occhi di una palestinese che guarda la sua casa abbattuta e i suoi ulivi sradicati in nome della sicurezza.
L’ingombro dell’altro è sempre lì per parlarci, sta a noi ascoltarlo.

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