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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
19.10.2018 Finalmente Cristo ha un nome: Yehoshua ben Yosef
Analisi di Giulia Villoresi

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 19 ottobre 2018
Pagina: 94
Autore: Giulia Villoresi
Titolo: «Indagine su un Gesù al di sopra di ogni sospetto»

Riprendiamo dal VENERDI' di Repubblica di oggi, 19/10/2018, a pag.94, con il titolo "Indagine su un Gesù al di sopra di ogni sospetto" la recensione/analisi di Giulia Villoresi.

Finalmente Cristo ha un nome: Yehoshua ben Yosef, cioè Gesù figlio di Giuseppe. Il volume di Giorgio Jossa è una ricostruzione storica che mette in discussione molti assunti sulla vità di Gesù che hanno chiara origine teologica.

Ecco l'articolo:

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La copertina (Paideia ed.). A destra, un altro consiglio di lettura (Rusconi ed.)

Ogni tanto, le case editrici religiose pubblicano una categoria di testi un po' diversa dal solito. L'argomento è sempre Gesù, ma indagato esclusivamente come personaggio storico. I primi tentativi di studiarlo risalgono al XIX secolo, quando diversi teologi di area protestante, desiderosi di creare un dialogo con la cultura moderna, decisero di avviare un'indagine non dogmatica sull'uomo Gesù. Da allora, alcuni eruditi sono stati risucchiati dal suo enigma. Pochi però, almeno in Italia; e quasi sempre teologi. Rappresenta un'eccezione il lavoro di uno studioso laico, Giorgio Jossa, professore di Storia della Chiesa antica alla Federico II di Napoli, di cui e appena uscito Voi chi dite che io sia? (Paideia, pp. 363, euro 27) con importanti novità interpretative sul cosiddetto "Gesù storico".

Partiamo dall'inizio. Nel 28 d.C. apparve nel deserto della Giudea un ebreo chiamato Yehoshua ben Yosef, cioè Gesù figlio di Giuseppe. Aveva all'incirca trentacinque anni e si era unito al movimento penitenziale di Giovanni detto il Battista. Costui annunciava l'imminente giudizio di Dio e invitava a pentirsi, non con i soliti sacrifici al tempio, ma con un lavacro battesimale nel fiume Giordano. Gesù era tra i suoi discepoli, ed è probabile che nel battesimo abbia fatto un'esperienza straordinaria. È col battesimo, d'altronde, che quest'uomo esce dall'oscurità per entrare nella Storia, prima come seguace e collaboratore di Giovanni, poi come profeta itinerante, ben presto partito perla Galilea. Possiamo dire qualcosa sulla sua vita prima? Pochissimo. «Con ogni probabilità era nato a Nazareth, non a Betlemme» spiega Jossa «primo di quattro fratelli e di un numero imprecisato di sorelle; era celibe, cosa estremamente rara per l'epoca, e forse aveva fatto il falegname. Altro non si può dire, perché le parti dei Vangeli che raccontano l'infanzia di Gesù, in Matteo e Luca, sono molto tardive e hanno un intento teologico. Le fonti attendibili parlano del periodo successivo al battesimo, quando Gesù comincia la sua predicazione, che probabilmente durò molto poco, un anno circa». A parte pochi riferimenti extrabiblici su Gesù (i più antichi sono in Flavio Giuseppe e Tacito), gli storici ammettono essenzialmente due fonti. Una è Marco: «È il Vangelo più antico» spiega Jossa «e con un buon lavoro critico se ne possono trarre molte informazioni utili. È stato scritto intorno al 70 d.C., forse da un discepolo di Pietro. Matteo e Luca, che scrivono intorno all'80, dipendono da lui». Ma non solo da lui. Un paio di secoli fa gli studiosi si sono accorti che Matteo e Luca dovevano aver utilizzato un'altra fonte ancora; ciò risulta chiaro dal fatto che entrambi presentano blocchi narrativi praticamente identici tra loro, ma estranei a Marco sia per stile che contenuto. La fonte irreperibile è stata chiamata Q (dal tedesco Quelle, fonte). Oggi il 90 per cento degli studiosi è convinto della sua esistenza, al punto che nel 2009 ne è stata fatta un'edizione critica. Anche Marco nasconde la traccia di fonti scomparse. Per esempio nel racconto della Passione: «È una parte molto diversa dal resto del Vangelo, per stile, lingua e contenuto teologico» spiega Jossa. «Vi si riconosce chiaramente una fonte più antica, che potrebbe risalire a un periodo molto vicino alla morte di Gesù».

Queste le fonti. Poi ci sono i "criteri", ovvero ciò che userebbe qualunque detective sprovvisto di prove: deduzioni dettate dal buonsenso, dalla conoscenza della storia, in parte anche dalla perspicacia psicologica. Il criterio di imbarazzo, per esempio. Il caso più tipico a cui viene applicato è il battesimo di Gesù: per gli evangelisti costituiva un problema serio - il figlio di Dio battezzato da un uomo - che di certo non si sarebbero creati da soli; dunque l'episodio non può che essere vero. Procedendo così, l'esegeta scava nella profondità di ogni parola, riconosce in alcuni passi un inconfondibile carattere di autenticità e infine trova, non senza preoccupazioni epistemologiche, il "suo" Gesù. Secondo Jossa non era un asceta, non era un «entusiasta estatico» né un agitatore politico. Probabilmente, almeno per tutta la prima fase del suo ministero, non si è neppure presentato come il Messia. Era un profeta carismatico, un predicatore e un guaritore. E in vita non ebbe mai un grande seguito: dodici discepoli - il numero è verosimile - a cui occasionalmente si univa una folla più numerosa. Frequentava soprattutto poveri e reietti; sicuramente compì un certo numero di esorcismi e guarigioni, che nel mondo antico erano fenomeni del tutto comuni («se costituiscano una prova della sua natura sovrumana è un fatto che non riguarda lo storico»). Andò a Gerusalemme in occasione di una Pasqua, compì un gesto provocatorio nel Tempio, consumò un'ultima cena coi discepoli, fu giudicato dal sinedrio e condannato a morte da Pilato. Il modo in cui visse questi eventi, però, è oggetto di interpretazione.

Una delle idee più forti di Jossa è che Gesù, almeno all'inizio, non abbia parlato dell'avvento del Regno in senso metaforico e celeste, ma terreno. «C'è una resistenza teologica ad ammettere che Gesù abbia potuto cambiare opinione» spiega. «Per questo ritengo che la maggior parte degli studi sul Gesù storico restino in realtà di impianto teologico; perché non riconoscono alcuna evoluzione nella predicazione di Gesù. E’ probabile invece che nella prima fase del suo ministero Gesù annunciasse una trasformazione radicale della società giudaica in senso egalitario, l'utopia di un regno senza sopraffazione né ingiustizia. E’ veramente difficile credere che, quando diceva ai poveri "Beati coloro che ora hanno fame, perché sarete saziati", stesse promettendo solo una lontana ricompensa celeste. E comunque, di certo il suo uditorio non poteva intendere quelle parole così. La predicazione in Galilea, però, non ebbe successo, e questo deve aver prodotto un mutamento. L'arrivo a Gerusalemme, dove risiedeva il Sinedrio, non può non averlo messo di fronte all'inevitabilità di una morte violenta, e quindi alla necessità di dare un senso a questa morte all'interno della sua missione». Il senso verrà rivelato nell'ultima cena. Gesù riunisce i discepoli il giorno prima di Pasqua perché sa di non avere più tempo: a causa della sua imminente scomparsa il Regno non potrà più compiersi in una dimensione terrena; e nel dono della sua vita Gesù vede l'inizio di una nuova alleanza con Dio, diversa da quella mosaica. Una domanda sembra inevitabile: come si spiega che quest'uomo incompreso, che aveva avuto cosi poco seguito, soltanto cinquant'anni dopo fosse al centro di un culto già diffuso nell'impero romano? «È successo qualcosa dopo la sua morte», risponde Jossa. «Per il credente, Gesù è resuscitato. Lo storico non può affermarlo. Può dire: i discepoli hanno avuto un'esperienza straordinaria; si è verificato un evento che ha ridato senso alla loro missione».

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