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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
12.07.2013 Ungheria alla deriva neonazista
cronaca di Andrea Tarquini

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 12 luglio 2013
Pagina: 33
Autore: Andrea Tarquini
Titolo: «Achtung Ungheria!»

Riportiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA, a pag. 33, l'articolo di Andrea Tarquini dal titolo "Achtung Ungheria!".


Un manifesto antisemita ungherese

Al primo istante la bella chiesa di Zugliget ti sembra uguale ad allora, tornandoci 24 anni dopo. Dopo la rivoluzione polacca e la scelta di Gorbaciov, l'Impero cominciò a cadere qui, il 16 settembre 1989: l'Ungheria aprì la frontiera, decine di migliaia di esuli dalla Ddr vennero accolti dall'ordine di Malta per poi lasciarli partire verso Ovest. Soldati magiari armati, Kalashnikov in pugno, difendevano da minacciose spie della Stasi in missione quella folla scappata dal cupo Paese del Muro. Annett, allora graziosa ventenne dagli occhi verdi, era una di loro. Fuggi qui da Jena: la Stasi non amava la sua mente critica, le aveva sbarrato la porta dell'università malgrado i pieni voti. Oggi, bella fortysomething iperattiva a Berlino unita, lei viaggia e s'impegna in tutto, e poi è la «mamma per amica» d'un primogenito universitario e due studentesse liceali. Le notizie di oggi sul Paese che la salvò sono un trauma, un pugno ai suoi ricordi della svolta. Devi ascoltare Miklòs Vecsei, viceresponsabile dei Malteser, per apprendere dei nuovi ospiti di quell'ex approdo di chi voltava le spalle alla Ddr. «Oggi ci occupiamo di altre folle. Distribuiamo zuppe e altro cibo caldo ai nuovi poveri. Anche pensionati dignitosi che indossano ancora l'abito buono ormai liso e superano a fatica la vergogna di dover mendicare dopo una vita di lavoro. E ai senzatetto più disperati e deboli offriamo La grande purga di ViktorOrbàn ha investito i media, non vi aspettate news sui nuovi poveri Con Orbàn sono venute nuove leggi che cambiano la psicologia della società ungherese angoli per dormire al sicuro». Ungheria, primavera 2013: una generazione dopo, il Paese che allora seguiva Gorbaciov e chiamava «sorella» la Polonia dell'intesa tra Walesa e i generali, lancia altre sfide. Non più a un Impero occupante, non più agli Honecker e ai Ceausescu di allora che la minacciavano di blitz missilistici, bensì a un'Europa dei valori troppo timida per reagire. Le sfide dell'antisemitismo tornato nel mainstream mentale dei ceti alti e nel salotto buono di editorialisti filogovernativi, della riabilitazione di Horthy, dell'odio e segregazione contro i rom, di attacchi agli omosessuali, e trend di intimidazione delle minoranze. «Odio, diffidenza, invidia, nazionalismi selettivi: Orbàn ha svegliato i peggiori dèmoni» mi spiega Karoly Voeroes, illustre decano del quotidiano libera] Népszabadsàg sempre nel mirino dell'autorità di controllo dei media e di chi distribuisce o nega la pubblicità. Ma non è tutto: i numerosi nuovi poveri vivono ormai quasi trattati da nemici interni. 47 cittadini su cento, nel Paese chiamato allora con ironia «la migliore baracca del Gulag», secondo le statistiche europee vivono in povertà. 17 su cento sopravvivono sotto la soglia della miseria. Mortalità e malattie infantili crescono. Poveri e senzatetto aumentano, la housing allowance (sussidio abitativo) va dai 17 ai 27 euro per famiglia. Per chi lavora il reddito base è sui 380 euro, circa un terzo che in Polonia o Slovenia (ma i prezzi no), licenziare è più facile che ovunque altrove nella Ue anche se sei incinta, controllare i dipendenti pubblici è più diffuso che mai, anche i sindacati hanno prima di tutto paura. «Dobbiamo superare l'inefficiente welfare all'europea, vogliamo il workfare, un sistema che premi chi lavora e assume e faccia nascere ceti medi nazionali» dice il premier Viktor Orbàn. Opposizioni deboli divise e inette (eccetto la fortissima ultradestra) non lo spaventano, le istituzioni sono in mano alla Fidesz, il suo partito, la Costituzione la scrivono e cambiano solo loro, la Corte costituzionale deve tacere. Da tempo la grande purga ha investito i media pubblici, non aspettarti news o reportages sui nuovi poveri. Il regime vanta successi, certo: debito sovrano sceso, procedura punitiva Ue cancellata, minicrescita economica, investimenti di rango, giapponesi, coreani o tedeschi: la nuova, elegante Mercedes classe A o lo smartphone Nokia vengono da qui. In centro, vedi coppie giovani con le carrozzine, manager andar di fretta, ragazze mozzafiato far shopping. Solo scavando trovi i mondi dei perdenti, dei drnpouts. Mondi gelidi anche d'estate: ora la Costituzione criminalizza i senzatetto, vieta di vivere in ogni spazio pubblico. E la flat tax (irpef al 16 per cento per tutti) premia i ricchi e punisce i poveri, sottrae ai poveri ogni reddito minimo esente e alle entrate 400 miliardi di fiorini. «Io cerco di convincere le autorità a collaborare, la mia priorità è la presenza cristiana ovunque a fianco dei poveri, dei senzatetto, degli emarginati» mi dice Mildos Vecsei. «Cerco di ricordare la Bibbia, la storia di Lazzaro il povero che sognava appena gli avanzi della tavola dei ricchi». Non è facile, ammette: recentemente il sindaco d'un bel quartiere borghese, l'ottava circoscrizione, Maté Kocsis (Fidesz), ha chiesto con un referendum se la gente vuole senzatetto, poveri, mendicanti, clochards nelle loro strade. «Ha votato appena il 10 per cento, lui ha vinto e ha subito tradotto in pratica». Con mille dipendenti e cinquemila volontari, i Malteser oggi viaggiano sempre ovunque nel Paese, tra i più poveri, «cerchiamo il dialogo e il contatto, per spiegare ai politici che è giusto pensare ai deboli, parlare con i deboli e non di loro alle loro spalle». Scommessa dura. «Agli occhi di Orbàn e dei suoi, i poveri e i rom non sono veri membri della società» mi fa notare Zsuzsa Ferge, massima esperta di ricerche sulla povertà in questo Paese. «Pochi giorni fa un gruppo di leader di Jobbik (ultradestra, opposizione, terza forza politica) ha guidato i suoi militanti in un ghetto rom vicino Miskolc. Avevano la lista di chiunque era troppo povero per pagare le bollette di luce e acqua, hanno staccato a tutti, famiglie con bambini o no. La polizia lascia fare poi hanno festeggiato la Pentecoste a modo loro: in pullman o su treni speciali fino alla Transilvania romena, uniformi e stendardi dei tempi di Horthy, e ovunque in quelle città romene cortei con i loro slogan, «la Transilvania è nostra, la rivogliamo»... e che si aspetta da un governo che sta creando la Corporazione unica dei docenti e imporrà di cantare un nuovo inno all'unità etnica a scuola ogni mattino? Chi le ricorda, a lei italiano, il concetto di Corporazione?". Dietro lo splendore di Budapest, comincia un viaggio agli inferi senza fine, quello nella nuova povertà ungherese. Nòra Ritok, attivista coraggiosa dell'aiuto ai nuovi «dannati della terra», quasi tutti rom, mi mostra le catapecchie dove vivono. Vedendole, ti senti quasi nell'Africa più derelitta. Casupole cadenti senza tavoli né letti per i bimbi, né acqua né luce né vetri alle finestre, strade sterrate e locali luridi. A Told, il borgo estremo dove l'ultima via senza asfalto finisce nel nulla, vivono in 360 e hanno lavoro appena in sei. Analfabetismo, malattie, tratta delle minorenni più attraenti in bordelli oltre frontiera, sono realtà quotidiane. «Organizziamo scuole, iniziative pedagogiche, centri d'incontro, e anche occhiali per bimbi e ragazzi miopi. Non glie li dà nessuno, e senza lenti, poveri e denutriti rischierebbero la quasi cecità» mi fa notare rilassandosi dopo il giro negli inferi con un tè al caffè letterario di Alexandra Koenyvesboelt, splendida libreria a un passo dalla Nyugati Palyaudvàr, la magnifica stazione ovest ipervetrata che dobbiamo a Gustave Eiffel. Da quei villaggi cadenti a nordest tutto il resto del mondo appare lontano. Persino il passato frugale realsocialista, dove almeno con l'industria pesante, magari obsoleta e inutile, padri o nonni (rom o no) dei nuovi poveri di oggi lavoravano. Email di insulti e minacce arrivano spesso, lei è decisa a non fermarsi. «Il razzismo è il problema più grave. Emarginazione e povertà, e un clima da apartheid, lo seguono a ruota» mi dice Jenoe Setét, ungherese rom, legale e attivista per i diritti della minoranza. «Ora tocca a noi Rom, siamo i primi nel mirino, ma attacchi agli ebrei già cominciano, come ostilità e clima violento contro i gay. Certi trend si ripetono, non sempre le tragedie di ieri tornano nel presente e nel futuro come farse» mi dice, mentre sediamo per un caffè alla terrazza di Stex, antico caffè d'intellettuali e attivisti operai sotto gli Asburgo e dopo, sul Nagykoerut, dove tanti giovani scendono dai silenziosi e veloci Jumbotram Siemens. I rom appunto, spesso chiamati con disprezzo cyganyok, sono i primi nel mirino. 80 su cento di loro sono disoccupati, a parità di qualifica d'un rom e un «bianco», tra i due, chi cerca neoassunti sceglie il «bianco». Concedono loro solo «lavori socialmente utili» pesanti e sottopagati, e «se possono accusarli di avere casa in disordine, li licenziano. Così li spingono al crimine per sopravvivere, così costruiscono l'apartheid». Come a Tiszevasvàri, dove nel 1997 furono organizzate due feste per la maturità, una per loro e una per noi. O a Szekesféhérvàr, dove annunciarono apertamente: «Costruiremo un ghetto sociale per i rom». Il razzismo è sdoganato, dice Jenoe, «spesso comincia dividendo alle elementari i bambini «bianchi» dai bambini rom che vivono senza acqua né luce, allora tutti dicono che puzzano, non hanno la merendina e si teme che la rubino. Non ho ancora visto condanne contro gli ultrà della Garda, che hanno sfilato per giorni, minacciosi, in quartieri rom a Miskolc o a Sajobàbany o a Budapest stessa, hanno condannato solo i rom che si difendevano, coinvolti nelle risse». A Devecser, continua, «un migliaio di neonazi ha organizzato un corteo con grida razziste nel quartiere gitano, la polizia non ha fatto nulla, lo stesso è avvenuto a Gyoengyoespata. Abbiamo protestato, la giustizia ha invocato il diritto alla libera espressione. Non siamo a Dresda, dove contro ogni corteo neonazi i cittadini normali scendono in piazza a migliaia. Non è stato incriminato nemmeno Zsolt Bayer, editorialista amico del premier, che sul Magyar Hirlap anni fa esaltò i pogrom antisemiti sotto Horthy e ora paragona i rom a scimmie. E smantellando il sistema delle Borse di studio hanno espulso almeno 14mila studenti rom dalle superiori». E nell'inizio d'un solo processo che Jenoe Setét spera, entro l'estate prima che scadano i termini della detenzione in attesa di giudizio. «In Norvegia dopo un anno Breivik è stato condannato, qui aspetto da quattro annidi vedere alla sbarra gli assassini di sei rom, tra cui un bimbo, uccisi a sangue freddo in strada da killer ultrà, a Tatàrszentgyoer, Nagycsécs e Kisléta». «Conosco da tempo Orbàn, battezzai i suoi primi figli» mi narra il pastore evangelico Gabor Ivànyi, che ora in un quartiere povero di Budapest gestisce un centro d'aiuto e accoglienza per 600 senzatetto. «So come sia intollerante, come non ami dialogare e sentirsi messo in dubbio» continua. «Con lui sono venute tante nuove leggi, da quella che ha escluso la mia Chiesa dal riconoscimento come Chiesa, a quelle che consentono di sbattere in prigione -non in centri detentivi minorili- anche i dodicenni... sta trasformando la psicologia della società ungherese, diventa una società incapace di guardare da adulta al passato e alla realtà di oggi, convinta di essere vittima di un'Unione europea che la odia. E davanti a lui è codarda la maggioranza delle Chiese riconosciute: nella Bazilika, la monumentale cattedrale di Budapest, hanno appena tenuto una messa solenne con Te Deum di ringraziamento perché lui è premier. Venerdì 31 maggio, per il suo 50mo compleanno». Ci vuole forse l'incoscienza dei giovani, per ribellarsi con ottimismo. O almeno te lo fa pensare Bàlint Mitesics, il ragazzo in bici leader della Ong «La città è di tutti». Da quando i senzatetto sono interdetti da ogni pubblico luogo, ci pensa lui a difenderli. «Se devono vivere in 50-60 a stanza nei dormitori, addio vita privata o di coppia, addio senso d'indipendenza, è ingiusto. Regrediscono. Meglio per loro vivere una vita povera e semplice ma che appartiene a loro e magari ai loro cari, in baracche o casupole che si sono costruiti da soli, vivendoci da anni, imparando ad arrangiarsi con generatori elettrici, acqua, riscaldamento. Quando le autorità mandano a demolire tutto e a confiscare i loro mobili e ogni loro avere come «spazzatura», noi li difendiamo con catene umane, quando ce la facciamo. Prese di posizione dell'ombudsperson governativo per la difesa dei senzatetto, una brava persona purtroppo senza poteri, ci hanno favorito. Poi una sentenza della Corte di giustizia europea di Strasburgo contro la distruzione di una shantytown a Sofia, in Bulgaria, indirettamente ci ha dato ragione: definisce prioritario il diritto ad avere una qualsiasi abitazione rispetto al diritto del comune di far quel che vuole col suolo pubblico». Impegno rischioso, quello del giovane Bàlint e dei suoi: gli è già capitato di finire ammanettati e arrestati dalla polizia. «Le prime volte te la cavi con un ammonimento, dopo possono colpirti prima con multe sui 150mila fiorini poi con pene detentive. Ma stia tranquillo, ho letto George Orwell» mi dice congedandosi. Corre via in bicicletta, sorridendo al futuro, quasi come quei fuggitivi tedeschi 24 anni fa e i soldati magiari che li aiutavano gentili.

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