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La Gazzetta del Mezzogiorno Rassegna Stampa
16.04.2019 Quei dittatori (quesi sempre islamici) che avevano accumulato enormi ricchezze e sono finiti male
Da Gheddafi a Saddam Hussein (manca nell'elenco Arafat)

Testata: La Gazzetta del Mezzogiorno
Data: 16 aprile 2019
Pagina: 16
Autore: Sergio Fortis
Titolo: «Caccia al tesoro di Gheddafi (solo 120 miliardi di dollari!)»

Riprendiamo dalla GAZZETTA del MEZZOGIORNO di oggi, 16/04/2019, a pag.16, con il titolo "Caccia al tesoro di Gheddafi (solo 120 miliardi di dollari!)", il commento di Sergio Fortis.

Molti dei despoti citati nell'articolo erano islamici - da Gheddafi a Saddam Hussein - e avevano accumulato enormi ricchezze personali riducendo alla fame la propria popolazione. La fine di questi dittatori  è nota. Ci si chiede a che cosa sia servito accumulare tanti tesori...per fini poi 'impalato' - una fine orribile- come finì Gheddafi da suoi stessi sgherri.

Ecco l'articolo:

Immagine correlata
Muhammar Gheddafi, Saddam Hussein

Mentre in Libia si ingarbuglia il filo e diventa rosso non solo per modo di dire, ma per il sangue della guerra civile, torna con prepotenza la caccia al tesoro di Gheddafi, che vale 120 miliardi di dollari. Nella sola Austria sarebbero depositati 1,2 miliardi di euro, secondo le ammissioni dell'OeNb, la banca nazionale di Vienna. Città importante per il figlio trentottenne del colonnello libico, Saif al-islam, che vi ha studiato, imparando bene il tedesco e mantenendo tutt'ora solidi legami con la dirigenza economica del posto. A Londra, invece, il governo di Sua Maestà ha bloccato il 3,27% delle azioni di Gheddafi nella casa editrice Pearson, che pubblica il Financial Times. Rimangono 20 miliardi di sterline, pari a 32,2 miliardi di dollari ed a 23,4 miliardi di Euro, in depositi bancari, altri investimenti nei settori del commercio, più una residenza a Hampstead, quotata 10 milioni di sterline. Negli Stati Uniti, Gheddafi si ritrova con 30 miliardi di dollari congelati. Altre porzioni del tesoro sono in Germania, in Svizzera e, naturalmente, in Italia. La Banca centrale libica possiede il 4,99 % dell'Unicredit. Con grande scalpore, Gheddafi nel 1976 acquistò il 9% della FIAT, che nel 1982 passò al 13%. L'uscita dal gruppo torinese nel 1986 fruttò al colonnello una plusvalenza di 2,6 miliardi di dollari. Dal 2000, i libici sono tornati, con una quota di poco meno del 2%. Poi ci sono la joint venture con la Finmeccanica, la partecipazione alla Juventus, all'ENI, alla Mediobanca, all'azienda tessile Obese ed alla Retelit, che opera nelle telecomunicazioni. Analoga caccia al tesoro si scatenò nei giorni della caduta di Saddam Hussein. Anche prima dell'attacco all'Iraq, all'inizio del 20(73, i servizi segreti statunitensi ed inglesi avevano scoperto che il dittatore di Baghdad possedeva circa 12,5 miliardi di dollari. Bisognava rintracciarli nel mille rivoli attraverso i quali erano stati convogliati per evitare la confisca. L'esercito degli Stati Uniti ebbe un colpo di fortuna nell'aprile 2003. All'interno di una villa di Saddam furono trovati 650 milioni di dollari suddivisi in 164 cassette di alluminio. Nei pressi, saltò fuori un'auto con 100 milioni di euro a bordo ed un biglietto di istruzioni: «Da recapitare al Credit Suisse, a Ginevra». Altra analogia con Gheddafi, l'importanza dei figli nelle operazioni di occultamento. Qusay Hussein, il giorno dopo l'invasione, si recò nella banca centrale irachena e prelevò un miliardo di dollari da trasferire, guarda caso, in Libia. Nonostante il passaggio fosse autorizzato da Saddam in persona, la Banca Centrale Libica negò di avere ricevutola somma. Usay Hussein andò a Ginevra per disporre un trasferimento di liquidi in due banche svizzere. Nell'ottobre 2003, i servizi segreti britannici intercettarono al confine iracheno 850 milioni di dollari in lingotti d'oro in via di consegna a Damasco. L'informatissimo ed affidabilissimo Mossad, il servizio segreto israeliano, sostiene che Saddam abbia distribuito porzioni del suo tesoro in Europa, Sud Africa, Hong Kong, Giappone, Russia, Bulgaria e nelle isole Cayman. Ad aiutarlo, il finanziere britannico Roland «Tiny» Rowland, implicato anche nel riciclaggio di profitti della droga e della mafia russa. Per restare nel Medio Oriente, come non pensare alle ricchezze di Reza Pahlavi, lo scià di Persia, deposto dalla rivoluzione islamica del 1979? Nel caveau della Bank Meli di Teheran era accumulato un tesoro degno di Aladino. Rubini, smeraldi, zaffiri, diamanti, perle bianche, perle grigie e nere, alessandriti, ametiste, topazi gialli e rosa, ambra, lapislazzuli, turchesi. Nella sola corona di Farah Diba si trovava incastonato un brillante di circa cento carati, dalla stessa datazione del Koh i Noor, la Montagna di Luce, già proprietà degli scià persiani ed ora esposto con i gioielli della Regina d'Inghilterra nella Torre di Londra. La fuga della famiglia Pahlavi, mentre Khomeini prendeva il potere, significò per Reza, la consorte ed i figli molto più di uno sradicamento. La storia della famiglia brillava in quei gioielli che materializzavano le mille ed una notte. Tanto da gravare nella memoria quali simboli di un passato irrecuperabile. Ali Reza Pahlavi, 44 anni, l'ultimo figlio maschio di Reza, doveva avere in mente gli splendori perduti quando si è suicidato negli Stati Uniti lo scorso gennaio con un'overdose di barbiturici. E, per parlare di un tiranno italiano, che fine ha fatto l'oro di Dongo? Il tesoro di Mussolini consisteva in cifre ai suoi tempi astronomiche. Oltre un miliardo di lire italiane, quasi 170.000 franchi svizzeri, 2.700 sterline in banconote, 63.000 dollari statunitensi e 4.083 monete d'oro. La notte tra il 25 e il 26 aprile 1945, nel tragitto da Milano a Como, i fuggitivi subirono un primo saccheggio a Garbagnate. Toccò a un camioncino Balilla fermo per un guasto, alleggerito del suo carico di sterline in oro. A Dongo comunque Mussolini in persona riuscì ad arrivare con 160 sterline ed assegni in lire per un importo di 1.700.000. Rilevante anche la gioielleria personale della Petacci, in cui spiccavano un anello con brillante di 16 grani, un secondo di 9 grani e due pendenti con perle oblunghe. I despoti in fuga con i loro beni, dopo avere tinto la Storia di tragedia, la fanno somigliare ad un melodramma.

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