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La Gazzetta del Mezzogiorno Rassegna Stampa
24.06.2004 Una recensione peggiore del libro
per falsità e faziosità

Testata: La Gazzetta del Mezzogiorno
Data: 24 giugno 2004
Pagina: 1
Autore: Giacomo Annibaldis
Titolo: «Due popoli nella terra che divora i suoi abitanti»
Una recensione di "Israele-Palestina. Le verità su un conflitto" che riesce nella difficile impresa di essere ancora più faziosa e meno veritiera del libro di Alain Gresh. Israele colonialista e fondamentalista, Sharon che, contro ogni verità processuale (dalla commissione Kahn al processo a Time), sarebbe "l'orchestratore" del massacro di Sabra e Chatila, le offerte di Barak a Camp David viste come trappola a danno dei palestinesi, nessun cenno alle ragioni degli israeliani, a differenza di quanto, sia pure con molte ambiguità e reticenze avviene nel libro del giornalista francese... a dispetto di quanto l'autore vorrebbe farci credere con la sua retorica e i suoi toni accorati quello che segue è un pezzo vibrante di odio e non d'indignazione.

Ecco l'articolo:

Indignazione. Si può recensire un libro che dalla seconda all'ultima pagina riesce a suscitare indignazione? Che costringe a «vedere» ciò che l'Occidente non vuol vedere? Certo che non si può recensire: una tormenta di sentimenti avvolge il recensore, la mente è turbata e non è sgombra per un giudizio sereno. E, tuttavia, si può far passare in silenzio un volume così potente ed efficace? No che non si può.
Stiamo parlando di Israele, Palestina scritto da Alain Gresh con l'intento esplicito di dire «Le verità su un conflitto» (come recita il sottotitolo). L'autore asseconda la formula della «lettera aperta alla propria figlia», eletta quale rappresentante di una generazione che agli odi e ai dolori di quei due popoli - così diversi eppure costretti a convivere - non presta se non una blanda attenzione (solo quando i tg mostrano le orribili stragi dei terroristi palestinesi) e ben poco invece sa sulle cause profonde e storiche del reciproco genocidio.
Alain Gresh è caporedattore di «Le Monde diplomatique» e autore di varie opere sul Vicino Oriente; è nato in Egitto, ma ha scelto la nazionalità francese. Pur esibendo le sue origini ebree (per parte di madre), Gresh non può nascondere la verità sul conflitto. Prima di tutto l'anomalia religiosa: perché è davvero difficile un confronto con chi si arroga il diritto a una Terra «data agli ebrei da Dio». «Una visione religiosa fondata su un messaggio divino non è negoziabile», dichiara Gresh, mettendo subito il dito nella piaga. «La parola di Dio» può essere pietra angolare su cui fondare la nascita di una nazione, soprattutto a spese di un altro popolo?
Pagina dopo pagina, l'autore percorre - con il possibile equilibrio e con documenti - le tappe di Israele. E quasi tutte ci appaiono ombrate dall'ingiustizia verso i palestinesi. A cominciare dall'affermazione del Sionismo, che propugnò a tutti gli effetti un'«avventura coloniale» (Theodor Herzl scriveva: «Il mio programma è un programma coloniale», e nel 1895: «Dobbiamo espropriare con gentilezza... con segretezza e al tempo stesso con prudenza»!). Un errore primario di Israele, perpetrato ancor oggi, ché «metro quadro dopo metro quadro, i coloni ebrei si impadroniscono delle terre, spingendo via gli arabi».
Quando l'Onu nel 1947 riconobbe la necessità che nel territorio storico della Palestina si insediassero due popoli e due stati indipendenti, uno ebreo-israeliano e l'altro palestinese, nacque Israele, ma non la Palestina. Già quella risoluzione era viziata dall'iniquità, perché, nonostante gli ebrei (anche dopo l'afflusso forzato del dopo-Olocausto) fossero solo un terzo della popolazione, si videro assegnare dall'Onu il 55% del territorio. Domanda: gli arabi avrebbero dovuto accettare questa situazione? Difatti aprirono subito il conflitto, che offrì al nascente ma già ben agguerrito Israele l'opportunità di annettersi altre consistenti porzioni di territorio e di sbarazzarsi degli arabi, che da allora cominciarono la loro interminabile storia di rifugiati ed esuli: ben 700mila persone furono costrette dalla guerra e dal terrore israeliano ad abbandonare la propria terra.
Al popolo palestinese, figlio di un dio minore, non ha giovato soprattutto la fasulla solidarietà araba. Anzi: è del 1970 il «settembre nero», lo sterminio da parte giordana, e nel 1975-76 l'annientamento da parte siriana in Libano; del 1982 l'eccidio di civili nei campi profughi di Sabra e Chatila, orchestrato dall'attuale leader israeliano Sharon e condotto dalla destra libanese.
Paradossalmente la guerra del '67 divenuta per Israele da difensiva in aggressiva, ha costituito l'inizio del suo declino, secondo Gresh. Oggi Israele occupa il 22% di quel 45% destinato agli arabi nel 1945. Finge di proporre «offerte generose», come quella di Barak, che era in effetti una trappola (come la storia sta ora svelando, manovra che meritò al leader israeliano l'accusa di «criminale di pace» da Uri Avnery vecchio militante pacifista israeliano).
Intifada, kamikaze, Road Map...: il lessico del conflitto si arricchisce. Ma in quello scacchiere ormai le paure sono diventate - come diceva Marx - «una forza materiale», e la scia di sangue è destinata a non rimarginarsi così velocemente. Sul popolo israeliano pesa sempre l'orrore dell'Olocausto (di cui fu responsabile l'Europa). Eppure, dopo sessant'anni di storia, si può ritenere che quel crimine europeo continui a mietere vittime, questa volta arabi (giustamente Edward Said, storico americano-palestinese, poté stabilire «un legame tra l'Olocausto e le ingiustizie sioniste imposte ai palestinesi»).
Certo, «un popolo che opprime un altro non può emanciparsi a sua volta», avrebbe detto Engels. E un Muro innalzato per recintare il nemico, alla fine si riduce a «chiudere» Israele. Ma dopo sessant'anni della sua storia, quanto mai profetiche appaiono le parole della Bibbia: questa è «una terra che divora i suoi abitanti».



Giacomo Annibaldis


«Israele, Palestina. Le verità su un conflitto» di Alain Gresh (Einaudi ed., pp. 130, euro 8,50).
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