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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Vanity Fair Rassegna Stampa
25.11.2004 Il frate che accolse i terroristi diventa una star
il contributo di Manuele Dviri

Testata: Vanity Fair
Data: 25 novembre 2004
Pagina: 100
Autore: Manuela Dviri
Titolo: «Frate telefonino e l'ombra di Arafat»
Su VANITY FAIR datato 2 dicembre 2004, Manuela Dviri intervista padre Ibrahim Faltas, il francescano che diventò famoso ai tempi dell'irruzione di un gruppo di terroristi palestinesi nella Basilica di Betlemme e del successivo assedio israeliano.
Le parole di questo personaggio ambiguo e sicuramente non imparziale sono riportate in modo acritico, così come acritico è il ritratto della sua figura.

Ecco l'articolo:

Medio Oriente: giornate particolari, folle particolari. Padre Ibrahim Faltas è il frate francescano di origine copta diventato famoso in Italia e nel mondo durante l’assedio della Basilica della Natività a Betlemme: chi non se lo ricorda, in saio e sandali, grande e grosso, telefono alla mano, mentre esce da una porticina e parla concitato coi giornalisti, con l’esercito, con il Vaticano?
I giornalisti lo soprannominarono, allora, "frate telefonino"
L’ho incontrato, per questa intervista, durante due giornate particolari, una di gioia,una di dolore: a Betlemme, la mattina in cui ha lasciato la sua città d’elezione per diventare parroco di Gerusalemme; e poi a Gerusalemme, al suo ritorno dal funerale di Arafat. Il suo giorno di festa, il suo giorno d’addio, verrà a lungo ricordato a Betlemme: per un giorno, un giorno solo, erano tornati i turisti, i pellegrini, gli amici venuti apposta da lontano, tra cui sindaci, attori (come Giampiero Bianchi di "Incantesimo"), gli artisti Gigi Proietti e Nicola Piovani (venuti per presentare la loro pietà), e importanti uomini politici, quasi tutti italiani, in un’atmosfera dichiaratamente allegra, tra lo sventolare di bandiere e di palloncini colorati, il carnevale di fanfare, le sfilate di scout bambini e adulti vestiti da zampognari scozzesi, accompagnati dal ritmico rullo dei tamburi, dal suono dei pifferi e dallo strombazzare delle trombe.
Pochi giorni dopo, l’annuncio della malattia di Arafat, la sua lenta agonia. Poi la sua morte. E giorni di incertezza e paura per i palestinesi, nell’era appena iniziata del dopo-Arafat.
Seguendo – in diretta come tutti gli israeliani – le immagini della folla impazzita durante il funerale a Ramallah, non ho potuto fare a meno di ricordare quella mattina di festa e quell’altra folla, in cui mi ero mescolata solo pochi giorni prima, a Betlemme.

Padre Ibrahim, dove e quando ha conosciuto Arafat?
A Gerico, nel 1993.

Ha conosciuto anche la vedova Suha?
Certo, e anche la figlia, Zahwa, che deve avere ormai sui dieci anni. Suha mi sembra una persona per bene, è stata a Betlemme, è cristiana ortodossa. Io naturalmente le ho fatto da guida nei luoghi santi.

C’erano al funerale a Ramallah?
No, che io sappia erano presenti solo alla cerimonia ufficiale, quella al Cairo.

E che ne pensa della disputa di Suha con la leadership di successione?
Non so, non capisco che cosa sia successo. Molto strano.

Diplomatico. Che cosa prova nei confronti di Arafat?
Arafat è stato un simbolo, il suo nome è conosciuto più di quello della Palestina stessa. Storicamente ha lavorato moltissimo per la Palestina, l’ha costruita. Ha riconosciuto Israele, ha firmato gli accordi di Oslo.

Sul fatto che sia un simbolo siamo tutti d’accordo. E il suo passato di terrorismo?
Il "passato di terrorismo" di Arafat è realmente passato solo con la sua morte. Le Brigate di al Aqsa dipendevano da lui, da lui dipendevano i finanziamenti al terrorismo suicida, l’impunità dei suoi organizzatori.
Non so che cosa abbia fatto dal punto di vista del terrorismo, certo ha lavorato molto per la pace.

Insomma, faccia uno sforzo, non riesce proprio a trovargli un difetto?
Certo non il giorno della sua morte, certo non la sera del suo funerale.

Perché c’è chi lo odia così tanto in Israele e nel mondo?
Ci sono anche molti che lo hanno apprezzato e amato – e anche in Israele: lo scrittore israeliano Uri Avnery per esempio, che con una delegazione israeliana è venuto anche al funerale – certo molti cristiani gli sono grati.
Anziché chiedere perché Arafat era odiato Manuela Dviri avrebbe potuto ricordare al suo interlocutore alcuni degli attentati terroristici della carriera di Arafat, almeno nel periodo precedente a Oslo.
Perché?
Ha cercato di aiutare in quello che ha potuto i cristiani, anche per la disputa della moschea di Nazaret. L’ho sentito io con le mie orecchie.

Che cos’è successo a Ramallah durante il funerale?
Il finimondo. La folla era enorme. Ci saranno state 50 mila o 60 mila persone. Il posto era grande ma non enorme. L’autorità palestinese aveva fatto il possibile, avevano preparato un piazzale per le delegazioni "vip", io ero lì con le autorità religiose, ma la folla ha divelto tutti i cancelli, buttato giù tutto, è stato un disastro. Non c’è stata una vera e propria cerimonia funebre.

Che cosa è riuscito a vedere?
Un elicottero che scendeva, la folla che urlava, poi il ministro Saeb Erekat che dalla porta dell’elicottero cercava di convincere la gente a spostarsi, e ancora oggi non so come siano riusciti a far scendere la bara da lì. Poi un’automobile è comparsa dal nulla a velocità altissima, e ha portato via la salma.

I funerali si sono trasformati in un delirio dei urli di disperazione, spinte, colpi di kalashnikov in aria, feriti, ha avuto paura?
Certo, la situazione poteva precipitare, faceva paura. I poliziotti palestinesi sparavano per fare spostare la gente, e noi eravamo proprio lì. Sentivamo le pallottole fischiare vicinissimo.

C’è chi, in Israele, ha detto che un popolo che si comporta così a un funerale non è in grado di costruire uno Stato.
Bisogna tener conto della spontaneità dei palestinesi, della loro emotività, della loro incapacità organizzativa, ma anche del posto, la Muqata, veramente troppo piccolo per un simile mare di gente in delirio.
Gli organizzatori avevano preparato tutto, anche il tappeto rosso, ma non ce l’hanno fatta. E meno male che è finita così. C’erano migliaia di persone arrampicate sui tetti, potevano cascar giù interi palazzi (uno effettivamente è crollato, ma non ci sono stati morti) e poi tutto quello sparare in aria… Lo stesso elicottero avrebbe potuto essere colpito. E’ stato un miracolo. Poteva andare peggio.

E adesso, che cosa succederà nel dopo Arafat?
C’è molta preoccupazione, molta paura per il futuro. Sono state passate le consegne ad Abu Mazen, Abu Ala, Rawhi Fattuh (il presidente del consiglio legislativo) e a Farouk Kaddoumi, e questo è di per sé un buon segno. Speriamo bene, Anche per le elezioni che saranno il 10 gennaio. Ci sono molti pericoli. Sarà difficile. Ma la maggior parte dei palestinesi vuole la pace, come del resto la maggior parte di voi israeliani. Il problema sono gli estremisti delle due parti, io lo dico sempre.

Torniamo ai suoi fedeli, i cristiani palestinesi, che almeno non sono noti per essere particolarmente estremisti.
I miei fedeli sono una minoranza all’interno del popolo palestinese, sono arabi ma arabi cristiani. Vivono gli stessi problemi di tutti i palestinesi ma ne hanno anche qualcuno in più: a Betlemme, ad esempio, la disoccupazione è altissima, si arriva al 6° per cento. Betlemme viveva di turismo, ora, il turismo non c’è più. Molti ricchi sono diventati poveri, altri sono emigrati. Pensi che in Cile ci sono più cristiani betlemiti che a Betlemme stessa. A Betlemme 35 mila. Settantamila in Cile. Eppure non ci sono mai stati terroristi o attentatori suicidi tra gli arabi cristiani.

E in futuro?
Non ci saranno mai attentatori suicidi cristiani. Mai e poi mai. Sono sicurissimo. Non fa parte della nostra religione, della nostra mentalità, per noi è un peccato capitale. Anche se ci saranno problemi economici ancora maggiori. I cattolici, quando proprio non ne possono più, se ne vanno. Emigrano.
Il terorismo suicida, contrariamente a quanto Faltas sostiene, non ha motivazioni economiche, ma ideologiche.
Tre israeliani sono morti e molti altri sono rimasti feriti al shuk-ha-carmel, pochi giorni dopo la festa di Betlemme. Alcuni giorni dopo proprio a Betlemme, l’esercito israeliano ha arrestato quindici militanti di una cellula di Hamas-Tanzim sospettati di preparare altri attentati suicidi a Gerusalemme, nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim e nella zona della tomba di Rachele a Betlemme. Siamo sicuri che tra quei militanti non ci fossero betlemiti cristiani?
Sicurissimo.

Molti giovani, in Europa e nel mondo, si danno da fare per la pace in Medio Oriente. Lei ha conosciuto bene alcuni di questi pacifisti. Nell’"Assedio della Natività " (di Giuseppe Bonavolontà e Marc Inanro, Ed. Ponte alle Grazie, ndr), dice, però: "Che pazienza ci è voluta… è stato veramente difficile trattare con i pacifisti, che, invece di aiutare a risolverli, sanno solo complicare i problemi…"
Ci sono pacifisti e pacifisti. Non so come fossero riusciti a entrare dentro quegli undici pacifisti canadesi, americani e svedesi, ci mancavano solo loro, come se non ne avessimo avuto abbastanza dei palestinesi armati fino ai denti e dei carri armati israeliani, dei cecchini e delle bombe lacrimogene. Per noi erano un peso in più, più bocche da sfamare. E poi volevano dormire da noi in convento, ma tra di loro c’erano anche donne e non ho potuto permetterlo. Hanno finito per dormire, anche le donne, con i palestinesi… Per noi frati quella promiscuità non era proprio l’ideale… e poi hanno ritardato la fine dell’assedio di un giorno, perché non ne volevano sapere di uscire. Se ne sono andati per ultimi, quando ormai erano usciti tutti, anche i 13 palestinesi poi mandati in Europa. Quando gli parlavo, per non ascoltarmi e non vedermi, si chiudevano gli occhi e si tappavano le orecchie. Alla fine, quando non c’era più dentro nessuno, si sono fatti trascinare fuori dalla polizia…


Che cosa si dovrebbe fare qui?
Incoraggiare il dialogo tra le due parti. Non si dialoga solo con una delle due parti o con se stessi. Quando le due parti dialogano non si muore, lo so bene io, e per esperienza diretta.

Cioè?
Ho fatto da intermediario tra israeliani e palestinesi durante l’assedio. I francescani in fondo hanno avuto questo compito (sono i custodi di Terra santa, ndr) dal 1342. In questo caso, comunicavo sia con i palestinesi armati che avevamo dentro, che con voi israeliani fuori che li volevate stanare.
Avevo problemi gravissimi da risolvere, dovevo, tra l’altro, fare uscire i morti. Il primo morto rimase nella basilica ben 17 giorni, perché ognuna delle due parti aveva la sua idea su come farlo uscire. Non fu facile. Li mi sono reso conto di quanto la mediazione e il dialogo siano importanti.
Nei giorni dell’assedio Faltas sostenne, falsamente, che i terroristi all’interno della Basilica erano disarmati, e che vi mancavano i viveri. Un modo interessante di "dialogare"…
Ha dei sogni per il futuro di questa terra?
Certo. Mi accontenterei per il momento che la vita tornasse a essere come prima dell’Intifada, sei anni fa, quando gli israeliani entravano a Betlemme senza paura, a piedi o in macchina, non con i carri armati. Quando ai ristoranti di Betlemme israeliani e palestinesi mangiavano fianco a fianco e le signore israeliane venivano qui a fare la spesa e a comprare il pollo allo spiedo. Quando c’era lavoro per tutti. Non c’era neanche allora la "Pace" con la maiuscola, quella vera, completa, ma c’era dialogo, e quando c’è dialogo c’è vita. l’Intifada è iniziata quando è fallito il dialogo (dopo il fallimento di Camp David nel settembre 2000, ndr). Io continuo a ripeterlo.

Ma dove sta Dio in questa terra di sangue?
Dio è negli uomini, dentro di noi

Viviamo in quella che le tre religioni definiscono, in tre lingue diverse, la Terra Santa (terra santa: Erez Ha Kodesh in ebraico, Al Ard al nukadacca in arabo. Lei lo sente Dio qui?
Si

Dove?
Dentro di me

E’ ottimista?
Si

Risponde ostinato, o solo pazzo, Ibrahim
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