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Rassegna Stampa
03.10.2008 La pace, la guerra e il futuro di Israele
dialogo tra Renzo Foa e Fiamma Nirenstein

Testata:
Autore: Renzo Foa, Fiamma Nirenstein
Titolo: «Faccia a faccia su Israele, la guerra e la pace. Da Rabin a Olmert, la maledizione del premier»
Da LIBERAL del 2 ottobre 2008, un faccia a faccia tra Fiamma Nirenstein e Renzo Foa, a cura di Luisa Arezzo :

I Primi ministri di Israele (e la sua stessa storia) sono preda di una grande aspirazione democratica e morale: la pace. Ma questa tensione è spesso andata di pari passo a molti fallimenti, tanto da far ipotizzare una sorta di “maledizione” che da oltre 15 anni sembra colpire i capi di governo israeliani, da Rabin a Sharon a Barak, e che in questi ultimi mesi è stata caratterizzata dalla sconfitta di Olmert in Libano e dalle sue dimissioni. Dov’è l’errore? E se c’è, come prevenirlo per contrastare l’ascesa del fondamentalimo islamico - sempre più prepotente di Hezbollah e Hamas - e la minaccia nucleare iraniana che si  avvia a superare la soglia tecnologica necessaria per costruire un ordigno in un paio d’anni e non di più? In questa conversazione serrata, Renzo Foa ha voluto girare a Fiamma Nirenstein, che oggi è vicepresidente Pdl della Commissione Esteri della Camera, alcune domande a cui non aveva saputo rispondere in maniera compiuta. E che riguardano, nel sessantesimo anniversario della nascita di Israele, il suo destino e la sua lotta per difendere i valori di un Occidente che stenta a riconoscere le sue priorità. Perché la pace delle volte va misurata su tempi più lunghi e con un impegno che passa per strade diverse. «E gli ebrei non si faranno ammazzare un’altra volta».

Renzo Foa. Dopo che Ehud Olmert si è dimesso, viene da chiedersi se non ci sia una maledizione che ormai da un quindicennio colpisce chi in Israele ricopre la carica di primo ministro: Itzaak Rabin, che da ministro della Difesa aveva invitato a «spezzare le braccia» ai palestinesi della prima intifada e che fu il protagonista degli accordi di Oslo, venne ucciso da un estremista di destra. Il suo successore, Shimon Peres, non resse alla prima prova elettorale e fu sconfitto per una manciata di voti da Benjamin Netanyahu che rassicurò l’opinione pubblica sull’argomento della sicurezza. Ma lo stesso Netanyahu fu travolto abbastanza rapidamente e le elezioni anticipate portarono al vertice il laburista Ehud Barak, che si ritirò dal Libano meridionale, ma che venne travolto da Ariel Sharon. Nessuno può dire quale sarebbe stata la storia politica di Sharon se non fosse stato tolto dalla scena politica da un ictus devastante. Sappiamo però che il suo successore, appunto Olmert, su cui erano state caricate tante attese, è riuscito a non vincere la guerra in Libano nell’estate del 2006 ed è stato allontanato dalla politica da una vicenda di piccola corruzione. Ce n’è a sufficienza per chiedersi cosa non funzioni, in Israele, nel rapporto tra l’opinione pubblica e i vertici politici. È una domanda a cui non riesco a dare una risposta convincente. Forse ce ne sono molte possibili, a cominciare da una sindrome che colpisce sempre di più i successori di Ben Gurion: quella di passare alla storia come «l’uomo della pace». Ma viene anche in mente la possibilità di vedere una debolezza delle forze politiche israeliane, di tutte le forze politiche, di fronte a processi diplomatici e a tensioni internazionali complicate, come non era mai successo in passato quando il fondamentalismo non era un soggetto dominante. Così come viene in mente di trovare una parte di responsabilità in una pubblica opinione che vive con incertezza il proprio futuro, anche se ha superato con una sorprendente forza gli anni difficili del terrorismo kamikaze...

Fiamma Nirenstein. La debolezza è la chiave di lettura: ma non nel senso che tu proponi. Nell’antica storia ebraica, da quando nel 70 d.C. venne distrutto il grande tempio e gli ebrei allontanati da Gerusalemme e cacciati ai quattro angoli del mondo, essi hanno vissuto in uno stato di debolezza continua cessato non nel ’48, ma nel ’67, quando Israele è passato da 10 a 70 chilometri di larghezza. Un momento di svolta per il Paese. Ciononostante, la debolezza, elemento portante nella vita degli ebrei, è stata sempre esaltata come un valore, perché altro non si poteva fare, era ciò che avevamo. E questa debolezza/valore è diventata parte di quel “sentire” che la sinistra sfrutta regolarmente per definire gli ebrei ontologicamente di sinistra. Ma non è vero: se la sinistra vuole dichiararsi ontologicamente ebraica, faccia pure, ma a noi ci stanno molto strette le loro etichette. La verità è che questa debolezza, in termini contemporanei traducibile in un’assoluta necessità di fare la pace, è l’elemento di instabilità e incertezza di una leadership che, quale che sia, scivola sempre sulla difficoltà a capire che quello che ha di fronte non è nemico accidentale ma, quello sì, ontologico. Certo, è stato un disastro l’assassinio di Rabin da parte dell’estrema destra, così come il recente attentato a Sternhell, tuttavia questi sono episodi di violenza estrema fisiologici all’interno di una società democratica. Ma se guardiamo ad altri esempi, come Sharon, Barak e Olmert, riusciamo a fare chiarezza.
Sharon decide che per fare la pace deve concedere una porzione di territorio e indica Gaza. Scelta peggiore non la poteva fare: lascia un immenso territorio nelle mani di Hamas - oltretutto collegato dal mare - e la Siria, che ci può portare armi iraniane, lo trasforma in un’enclave di Teheran piena zeppa di missili. E questo perché Gaza non desidera affatto creare uno Stato palestinese, ma solo uccidere gli ebrei. E’ il suo scopo vitale. Sharon non lo aveva minimamente compreso, perché nonostante fosse l’uomo che predicava – sempre - il pericolo, avvertiva un sovrastante desiderio di pace. Stessa dinamica nel Duemila, con il ritiro dal Libano voluto da Barak Grazie a quella scelta Hezbollah diventa una costola sia della Siria che dell’Iran, trasformandosi in un’organizzazione potentissima che oggi può contare su 40mila missili che noi dell’Unifil gli abbiamo lasciato portare in casa. Anche in questo caso abbiamo ceduto un pezzo di territorio (come Occidente, intendo) non per creare uno Stato più libero e forte, ma per distruggere Israele. E poi arriva Olmert e cosa fa? perde la guerra con Hezbollah perché non osa sparare, perché quelli colpiscono - in questa nuova guerra asimmetrica - da sotto le moschee, da dentro le scuole, dalle case di paesini nella fascia meridionale del Libano, mentre Olmert distrugge qualche abitazione e un aeroporto secondario restando disperatamente ad aspettare che l’Onu dichiari il cessate il fuoco per battere la ritirata e non fare più la guerra. Non solo: avvia anche delle trattative con una Siria che non ha nessuna intenzione di trattare. Bashar al-Assad fino a oggi non ha concesso nulla, ma solo chiesto che gli venga dato il Golan, una richiesta impossibile visto che con ogni probabilità lo trasformerebbe in una terrazza per usare armi distruttrici contro Israele. Loro, e noi europei con loro, abbiamo sempre ritenuto che la pace basta desiderarla, cercarla, e invece con tutte queste concessioni abbiamo creato una situazione in cui le guerre non solo sono all’ordine del giorno, ma non cessano più. I Primi ministri (e la storia di Israele) sono preda di questa grande aspirazione democratica e morale: la pace. Ma la pace delle volte va misurata su tempi più lunghi e con un impegno che passa per strade diverse.

Foa. Chi sarà il nuovo Primo ministro israeliano? Che governo guiderà?

Nirenstein. Benjamin Netanyahu, perché Tzipi Livni è figlia di un partito, il Kadima, fallito. Per disgrazia, certo, visto che Sharon giace in un letto e non è più in grado di guidarlo. Ma ciò non toglie che la Livni, per quanto donna, affascinante, intelligente e brava, sia un’epigona che non giocherà un ruolo definitivo per Israele. Formerà probabilmente un nuovo governo, ma le elezioni sono troppo vicine e richiedono un leader che abbia alle spalle un partito robusto quanto le sue idee: sotto questo profilo il Likud è più forte di Kadima. Dei laburisti è difficile parlarne, se non come un’opposizione che sarà forte quando Barak potrà essere contrapposto a Netanyahu, cioè un leader forte di sinistra contro un leader forte di destra. Quel giorno ci confronteremo con un bipartitismo perfetto e potremo scegliere fra due uomini forti con un passato importante da primo ministro. Tzipi Livni dovrà aspettare il turno successivo.

Foa. Ha l’aria di un ritorno al passato…

Nirenstein. No, purtroppo il futuro è molto incombente su Israele. L’Iran ha creato una situazione tragicamente prevedibile perché prepara un’atomica che cambierà tutte le dinamiche della politica internazionale. Gli Stati Uniti sembrano saperlo, l’Europa ancora non se ne è resa conto. Nessuno li fermerà, almeno che non decida di farlo Israele.

Foa. Come impedire a Teheran di diventare una potenza nucleare e di minacciare realmente la distruzione di Israele è l’altra grande questione del momento. È una partita a fasi alterne, in cui l’Occidente a volte sembra incerto e a volte deciso e in cui spesso sembra invece interamente nelle possibilità israeliane di colpire militarmente gli impianti nucleari iraniani. La domanda a cui non riesco a dare risposta è questa: Israele è oggi in grado di rinunciare a rapporti di forza militari che, in Medio Oriente, continuano ad essere a proprio vantaggio? Che prezzo pagherebbe ad un intervento unilaterale contro il programma nucleare di Ahmadinejad? C’è un primo paradosso: molte piccole e medie potenze della regione trarrebbero certamente un sospiro di sollievo, ma ci sarebbe lo stesso un’ondata anti-israeliana senza precedenti. Un secondo paradosso consiste in una reazione prevedibile dell’Occidente, che tornerebbe a spaccarsi tra le due sponde dell’Atlantico, con un’Europa più prudente nonostante la svolta impressa da Sarakozy e dalla Merkel...

Nirenstein. Non ho ancora sentito un leader israeliano, di qualsiasi parte politica, immaginare la possibilità che l’Iran si doti del nucleare. Non potrebbe essere altrimenti: il popolo ebraico non vuole un altro olocausto. Questo lo promette Ahmadinejad, consapevole che Israele è una scheggia di valori occidentali nell’ambito di un mondo – il suo - che è contro le donne, che perseguita le minoranze, che impicca gli omosessuali, che non ha un sistema giudiziario indipendente e che non conosce la democrazia. Israele è tutto ciò che non è l’Iran. E il popolo ebraico non lascerà che le porte dell’oscurità si spalanchino. A questo punto, la domanda è: se le armi delle sanzioni, indebolite ancor più dall’attuale crisi con la Russia (che peraltro ha impedito la riunione per stabilire la quarta mandata di sanzioni), non dovessero bastare, se gli americani continuassero ad essere in difficoltà nel sostenere il pathos di un legame inscindibile fra democrazia e lotta al terrorismo, che succederebbe? Israele interverrebbe. E il suo intervento sarebbe deciso e definitivo, per Israele e per il mondo. Perché il suo stato d’animo e la sua forza morale non sarebbero diversi da quelli che nel 1948 portarono un pugno di uomini malamente armati a respingere 5 eserciti arabi.
Una gran quantità di studi, inoltre, ritengono questa opzione “possibile”. Intanto perché avverrebbe prima che Teheran diventi nuclearmente attiva, e questo impedirebbe un conflitto di portata atomica. Secondo perché le stazioni americane antimissile sono in grado di intercettare i lanci di lungo raggio e impedirebbero una devastante pioggia su Israele. Il vero scoglio sono i missili a cortissimo raggio sparati da Hamas ed Hezbollah, e su questo la Difesa deve ancora lavorare. Si tratterebbe di una guerra non convenzionale, ma non di una guerra nucleare. Il punto è: il mondo è pronto a difendere Israele? Secondo me non tanto. Solo gli Stati Uniti lo fanno, noi europei non solo non lo difendiamo, ma desideriamo vederlo il più piccolo possibile. D’altronde l’idea di concedere porzioni di territorio per ottenere la pace è l’unica proposta che l’Europa abbia saputo mettere in campo. A mio giudizio, l’Europa ha sempre lavorato contro, non per Israele.

Foa.  Un’altra domanda a cui non riesco a dare una risposta compiuta e che ti giro. È possibile trattare con Hamas e con Hezbollah, che sono ora i due nemici più «vicini»? In fondo i negoziati che nella sua storia Israele ha condotto con altri vicini non sembravano in partenza meno ardui e difficili. L’Egitto non riconosceva certo il diritto all’esistenza di Israele, prima della normalizzazione dei rapporti, ormai trent’anni or sono. E, in fondo, quando c’è stato il negoziato con un nemico ambiguo come Arafat, le condizioni di partenza non erano molto diverse da quelle che ci sono adesso nel rapporto con le due organizzazioni politico-terroristiche. È vero che il leader dell’Olp era più nazionalista che fondamentalista e che un linguaggio comune, proprio per questa circostanza, era possibile. Ma, aldilà di questo, non vedo una grande differenza tra l’Olp prima di Oslo e Hamas ed Hezbollah oggi. Se c’è una differenza questa sta nel contesto internazionale e nell’alleanza tra terrorismi, fondamentalismi e Stati canaglia. Ma davvero il regime siriano di Assad può dare maggiori garanzie di quante non ne diano gli estremisti libanesi o palestinesi? Davvero Israele non si sente in grado di esercitare una deterrenza nei confronti dei suoi nemici più vicini, che hanno delle retrovie geograficamente individuabili e degli sponsor punibili, tanto a Teheran come a Damasco.

Nirenstein. Studiando la storia di Hezbollah e Hamas si capisce una cosa: non c’è deterrenza che tenga nei confronti di un’organizzazione islamista, perché il suo scopo è quello di imporre la umma islamica sulla terra che ai loro occhi appartiene all’Islam. Entrambi, poi, non solo convergono sulla cacciata degli infedeli dalla Terra Santa, ma derivano il loro odio nei confronti di Israele da quello – primario – contro l’Occidente. Solo due cose il governo ebraico potrebbe fare per “tenerli buoni”: morire, autodistruggersi, oppure trasformare il popolo d’Israele in una minoranza religiosa a loro assoggettata. Prendi Hezbollah: ha avuto tutto. Barak gli ha lasciato perfino credere di aver vinto. L’Onu è andato a misurare centimetro per centimetro la terra, lasciando in sospeso solo una minuscola striscia, le cosiddette Fattorie di Sheeba, perché la loro destinazione avrebbe dovuto essere trattata anche con Libano e Siria. Io ci sono andata, parliamo di meno di un fazzoletto di terra. Ma Hezbollah le ha trasformate in motivo di resistenza armata, di attentati e rapimenti. Grazie a quel minuscolo appezzamento continua a giurare morte ad Israele. Dovremmo essere tutti profondamente indignati di questo, non ragionarci sopra. E prendo spunto per ribadire, in questo nostro colloquio, quanto sciagurata sia stata la passeggiata di D’Alema, agli Esteri sotto Prodi, a braccetto con Hezbollah. Un gesto caratterizzante la sua visione della politica estera, quella che vede nel toccarsi, nel parlarsi, la possibilità di andare da qualche parte. Non è così. Prendiamo l’Iran: sono 6 anni che parliamo con loro e dopo tutto questo tempo (andato a loro vantaggio), siamo ancora qui a chiederci se la soluzione non siano colloqui diretti fra Teheran e Washington. Ahmadinejad non si fermerà. Per farlo recedere dai suoi propositi bisogna applicare sanzioni economiche e commerciali anche bilaterali, che costringano le nostre banche e le nostre industrie a non fare affari con il suo regime. Non dimentico che al vertice Fao di Roma nessun membro del governo ricevette Ahmadinejad, ma non scordo nemmeno la festa privata al suo albergo che vide tutto il gotha dell’imprenditoria e della finanza italiana prono a baciargli il lembo delle vesti per far perdonare Berlusconi e Frattini. La Germania, che lo scorso anno aveva ridotto il suo volume d’affari, è già ritornata ai livelli precedenti. C’è una grandissima difficoltà a far recedere il mondo degli affari dal business che l’Iran rappresenta. Ma è lì che dobbiamo colpire, è questa la nostra arma prima delle armi vere.

Foa. Io e te siamo quasi coetanei e nella nostra vita abbiamo solo potuto immaginare Israele in pace con i suoi vicini. Abbiamo assistito – e abbiamo scritto – a tante guerre, a tanti negoziati, a tanti accordi. Abbiamo sperato spesso di trovarci davanti alla volta buona. Eppure questa pace diventa impossibile ogni volta che sembra a portata di mano. Con questo non voglio dire che tutto sia immutabile. Israele è un paese in costante mutamento e lo è anche il mondo arabo. Con tante sorprese e con tante fasi alterne. Se devo pensare agli ultimi anni, mi viene in mente il periodo della seconda intifada, quando – molti erano di questa opinione – ci fu davvero il rischio di un crollo, quando non solo uno Stato, ma anche una società avvertì il pericolo di una difficoltà di resistere alla minaccia distruttiva, al terrorismo dei kamikaze. Con il passar del tempo, mi convinco sempre di più che questa condizione – che potremmo definire di «pace guerreggiata» - sia una condizione destinata a durare a lungo nel tempo. A meno che non intervengano modifiche strutturali come, ad esempio, la fine del «potere del petrolio» o una sconfitta sonante del fondamentalismo, non solo da parte degli occidentali, ma anche nel mondo arabo e musulmano. O a meno che non si impongano leadership politiche capaci di far rispettare accordi di pace realistici e praticabili. Ma questo mi sembra un sogno.

Nirenstein. Tocqueville dice che i sistemi democratici sono lenti a muovere guerra, ma che nel momento che decidono di farlo sono i più bravi di tutti perché portatori di una determinazione morale in grado di pareggiare quella degli assassini che hanno di fronte, come in questo caso. Non dimentichiamo che il cuore del messaggio islamista è morale: costringere all’islam tutto il resto del mondo per portargli la salvezza. Per sua natura, esprimendo un contraddittorio, la democrazia avversa il fanatismo. Ma se arriva un momento in cui si sente realmente minacciata, si risveglia. Ecco, sono certa che tale risveglio nelle nostre democrazie sia possibile, così come sono certa della preparazione militare delle Forze armate italiane. E poi c’è la Nato, il nostro bastione di difesa di fronte all’Iran e ogni estremismo. Quanto a Israele, ha un esercito meraviglioso, ottime armi e grazie al cielo anche un arsenale atomico che impedisce ai nemici facili scherzetti. Perché una cosa la gente deve avere chiara: gli ebrei non si faranno ammazzare un’altra volta. Punto.

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