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Il Manifesto Rassegna Stampa
02.01.2012 Minimizzare l'antisemitismo di Céline è un errore
commento di Enrico Baruch

Testata: Il Manifesto
Data: 02 gennaio 2012
Pagina: 10
Autore: Marco Dotti
Titolo: «Céline rivisitato in tempo di crisi»

Riportiamo dal MANIFESTO del 30/12/2011, a pag. 10, l'articolo di Marco Dotti dal titolo "Céline rivisitato in tempo di crisi", preceduto dal commento di Enrico Baruch:


Louis-Ferdinand Céline

Enrico Baruch: "Minimizzare l'antisemitismo di Céline è un errore"

Che senso ha una frase come questa in un articolo su Céline? «Sull’antisemitismo non è forse il caso di soffermarsi [...] per evitare banalità e non meno scontate condanne». A scriverla è Marco Dotti sul “manifesto” del 30 dicembre. In una intera pagina, la 10, dedicata allo scrittore francese. L’occasione è lo scadere, come le confezioni del latte, dei cinquant’anni della sua morte. E giusto per evitare di buttar via il mezzo litro appena acquistato, tardivamente visto che era sugli scaffali da ben dodici mesi, l’articolo viene rubricato, dal bacchettone redazionale, “utopie negative” e gratificato da un titolo non proprio sobrio: «Céline rivisitato in tempo di crisi». Vengono in mente i titoli di quelle raccolte rock in cui gli epigoni reinterpretano i grandi gruppi di un tempo, tipo «Genesis revisited», cose così. Centrale nell’articolo del Dotti è il “sociale” céliniano. Costruito un po’ sulla formidabile (sic) osservazione “per abbattere i tassi di disoccupazione, si abbatteranno i disoccupati?”... Swift se la cavava meglio. Un po’ sulla sua attività medica, sempre in gran spolvero tra gli esegeti, epitome di quello sguardo commosso che lo scrittore riverserebbe sull’umanità implorante e bisognosa (basta che non sia ebrea, ovviamente). Evidenza di una prossimità alle miserie umane che sarebbe stata quanto mai apprezzata se non ci fosse stata quella stupida e rognosa, davvero una bella rogna, dell’antisemitismo.
Segue un breve, ma molto interessante, esempio di come fare a meno delle rogne, che potremmo sintetizzare così: l’antisemitismo letterario è un gioco a somma zero.
Dice, infatti Dotti: «
Resta un problema [e vorremmo ben vedere!!]: se Céline non fosse stato antisemita, ci avrebbe forse offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo (Aragon si pronunciò in tal senso, dichiarando il Viaggio come il più autentico e sentito romanzo comunista. Altri lo seguirono a ruota)». L’antisemitismo, cerchiamo di seguire noi Dotti, sarebbe un impedimento alla “più grande lettura della miseria”... che comunque ha modo di esprimersi, tanto che il Surrealismo più impegnato del tempo glielo riconosce cor unum, anzi, autentica e sentita lettura comunista. Céline, evidentemente, supera l’impedimento. Perché? Non è antisemita? Quel “se” viene così a cadere, inevitabilmente posticcio. Prosegue Dotti: «Ma se non fosse stato antisemita, non ci avrebbe offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo». Ohibò! È tesi simmetricamente contraria alla prima! Qui l’antisemitismo è condizione quasi indispensabile perché avvenga la famosa grande lettura. «Non se ne esce, nemmeno istituendo soluzioni di continuità tra un Céline apolitico e un Céline politico, tra un prima e un dopo i libelli antisemiti. Tutto è già in nuce nel primo Céline e tutto è in nuce nello scrittore, perché tutto – si ha l’impressione – è da sempre in potentia in un patrimonio culturale che la Francia si è apprestata a ricacciare sotto il tappeto, come si fa con la polvere», conclude il Dotti senza concludere alcunché. Allora, intanto un diffettuccio nella base dei dati: non c’è antisemitismo apolitico in Francia, da Dreyfus in poi c’è solo politica antisemita. Un Céline antisemita in quanto apolitico è culturalmente impossibile; se è antisemita lo è politicamente. Dotti sposa la tesi continuista, presente sia nel libro di Germinario sia in quello del De Benedetti, un unico Céline, ma si complica la conclusione assicurandoci che la grande lettura della miseria umana è in potentia in quel patrimonio culturale che la Francia si appresterebbe a nascondere. Se parla di Céline, Dotti dovrebbe sapere che il rifiuto alle celebrazioni che si riservano ai grandi scrittori nel cinquantesimo della morte per Céline è una sapiente mescola di opportunismo governativo e convenienze di marketing letterario, accolto e in qualche modo auspicato con soddisfazione da Gibault, l’avvocato nonché biografo di Céline esecutore testamentario della sue volontà. Il furbissimo sa bene che mantenere in piedi l’idea di un certo ostracismo fa vendere, e bene, l’opera dello scrittore. Ma quale polvere e quale tappeto! Un autore in catalogo Pléiade da decenni è consacrato e riverito, massime se sostiene la grande lettura della miseria del nostro tempo... e senza che sia Dotti a dirglielo.
Piuttosto, ed è il punto dolente che non riguarda solo Dotti, ma molto della tartufesca lettura che la sinistra italiana riserva ai cosiddetti autori maledetti o in odore di eresia (come se queste attribuzioni non dovessero obbligare a guardar dentro queste eresie, a questi odori e distinguerli, almeno leggerli se non proprio giudicarli), l’antisemitismo porta sempre con sé un alone di “sociale”, fosse solo il sudaticcio ascellare delle conseguenze non volute, che consente tanta pietas. A Dotti non è venuto in mente che proprio in tanto rumorosi e apocalittici quanto impotenti singhiozzi sulla miseria del tempo risiedono gli spiriti che hanno fatto dell’antisemitismo quella formidabile macchina di sterminio che ha operato così efficacemente nei totalitarismi novecenteschi, distribuendosi equamente a destra come a sinistra con sapiente modulazione delle responsabilità da attribuire ai soliti noti. Peccato, perché attorno a Céline poteva giocarsi una buona partita, fatta di onesto riconoscimento del valore dello scrittore in altrettanta onesto disprezzo delle sue tesi, invece ancora ci si arrampica sugli specchi per riaffermare il “suo dirompente profilo non privo di risvolti politicamente lucidi e perfino profetici, nella sua prefigurazione distopica”. Frase ben costruita... solo ci lascia perplessi il “perfino profetici”... di cosa di grazia volete spiegarcelo? Non vorremmo aver capito male.

Enrico Baruch

Il Manifesto- Marco Dotti:" Céline rivisitato in tempo di crisi"

Per abbattere i tassi di disoccupazione, abbatteranno i disoccupati? Se lo chiedeva Louis-Ferdinand Céline nell’inverno del 1933, a pochi mesi dall’avventurosa pubblicazione del suo Viaggio al termine della notte. Un libro edito in sincrono, nel ’32, con un’altra grande disamina della lunga deriva di vita e lavoro nel secolo che tardiamo a lasciarci alle spalle, quell’Operaio di Ernst Jünger che, nel suo piano elementare, può (anche) essere letto come l’altra faccia della falsa moneta della tecnica messa alla berlina nel Viaggio. Con una differenza, tra le tante che qui si omettono: se in Der Arbeiter è – come da sottotitolo – di Herrschaft e Gestalt, dominio e forma e, di conseguenza, di mobilitazione totale che si fa questione, nel Voyage il tragitto è inverso, tanto che non è più al piano agonistico e drammatico, ma alla caleidoscopica e dirompente potenza dell’infamia e dell’informe in una prefigurata era di mobilisation infinie che si guarda. Nei panni del medico sociale Eppure entrambi, Jünger e Céline, si sporgono sullo stesso abisso. Uno dall’alto, l’altro dal fondo. Uno gettando lo sguardo oltre le sue elitarie scogliere di marmo, l’altro alzando gli occhi duri da bretone sopra il fango che si deposita nei sottopassi della Storia. Una Storia che, nelle peripezie della coppia Bardamu-Robinson del Voyage au bout de la nuit, riveste tratti di scapestrato simbolismo collettivo. Il Viaggio è anche il sogno americano che si schianta – travolgendola – contro un’Europa avvilita dalla guerra passata e imminente, dalla fame e dalla crisi del ’29 e da un colonialismo che si appresta a mutarsi – grazie alla vita malata messa al lavoro – nel più temibile dei contrappassi: una «endocolonizzazione » dell’esistenza, in nome di pari libertà, fraternità, uguaglianza. Una crisi che, in Francia, dispiegò gli effetti più duri proprio nel ’32 provocando, tra l’altro, la caduta – su questioni, ironia delle cose, di patrimoniali e debito estero – del governo di Édouard Herriot, inaugurando l’era delle grandi truffe bancarie. È di quegli anni il prototipo di molti crack finanziari moderni, quell’affaire Staviski che travolse il Crédit Municipal de Bayonne e un sistema ben più complesso di partite doppie tra politica e affarismo scritte con l’inchiostro simpatico di un grande imbroglio istituzionale. Entrambi guardano lo stesso abisso o almeno così vogliono far credere. Poco importa, dunque, che i due, Céline e Jünger, si siano fiutati e rifiutati, nei mesi trascorsi dall’autore di Die Totale Mobilmachung (1930) a smistar lettere nella Parigi occupata. Di Céline, nel suo diario Jünger ricorderà che era «grande, ossuto, forte, un po’ goffo, vivace nella discussione, anzi nel monologo», oltre che «sorpreso, urtato di sentire che noi soldati non fuciliamo, non impicchiamo e non sterminiamo gli ebrei; sorpreso che qualcuno, avendo una baionetta a disposizione, non ne faccia un uso illimitato». Sull’antisemitismo di Céline non è forse il caso di soffermarsi (lo fanno, da prospettive differenti, storica e di critica culturale, due lavori di Germinario e De Benedetti segnalati nella scheda a fianco), per evitare banalità e non meno scontate condanne. Resta un problema: se Céline non fosse stato antisemita, ci avrebbe forse offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo (Aragon si pronunciò in tal senso, dichiarando il Viaggio come il più autentico e sentito romanzo comunista. Altri lo seguirono a ruota). Ma se non fosse stato antisemita, non ci avrebbe offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo. Non se ne esce, nemmeno istituendo soluzioni di continuità tra un Céline apolitico e un Céline politico, tra un prima e un dopo i libelli antisemiti. Tutto è già in nuce nel primo Céline e tutto è in nuce nello scrittore, perché tutto – si ha l’impressione – è da sempre in potentia in un patrimonio culturale che la Francia si è apprestata a ricacciare sotto il tappeto, come si fa con la polvere. Nell’articolo uscito su «LeMois» (1 febbraio – 1 marzo 1933) con il titolo Pour tuer le chomage tueront-ils les chômeurs? chi prende posizione non indossa la maschera e il sarcasmo dello scrittore né (ma qui, appunto, il discorso si farebbe scivoloso) quella dell’apertamente violento antiborghese e antisemita delle Bagatelles pour un massacre edite da Denoël nel 1937 e tradotte dal Corbaccio l’anno seguente. Chi parla, su «Le Mois», indossa ancora abiti e contegno del medico sociale, con il suo freddo dominio delle cifre e la sua preoccupazione per le condizioni di vita del proletariato industriale. Laureato in medicina, Louis-Ferdinand Destouches aveva operato per i servizi sanitari della Società delle Nazioni e, come medico del lavoro, presso gli stabilimenti americani della Ford, dopo aver trovato impiego come operaio e essersi sentito ripetere – si legge nel Voyage – che «non ti serviranno a niente qui i tuoi studi, ragazzo! Mica sei venuto qui per pensare ma per fare i gesti che ti ordineranno di eseguire. Non abbiamo bisogno di creativi nella nostra fabbrica. È di scimpanzé che abbiamo bisogno». Nel 1930, Céline aveva già all’attivo alcuni saggi di medicina sociale che in qualche modo anticipano le pagine del Viaggio sulle condizioni della manodopera industriale alla Ford e sui quartieri popolari di Parigi. L’articolo apparso su «LeMois » è però relativo a un altro viaggio compiuto dallo stesso Céline, non negli Stati Uniti ma in una Germania sull’orlo di quel lungo inverno che l’avrebbe presto condotta a una tragica rovina. Il 5 marzo 1933, il Partito Nazionalsocialista vinse le elezioni e a qualcuno parve addirittura un segno di pacificazione interna o, comunque, un buon segno per la ripresa dell’Europa. Sofismi al posto di azioni Ma, come osservava Céline, «la pace non interessa nessuno e la fraternità viene a noia». Soprattutto in tempi di crisi. Come si ridurrà la disoccupazione?, si chiede il dottor Destouches. I tecnici dei ministeri sembrano avere, per lui, indocile lettore di statistiche, una sola risposta: «Con la sparizione graduale dei disoccupati». Questo perché «la mortalità crescente e lemalattie da fame finiranno, nell’arco di cinquant’anni, per assorbire tutti i “senza lavoro”. Ecco quello che non si dice chiaramente, ma si predice come normale negli ambienti “bene informati”». E nel frattempo? Nel frattempo, conclude, «il sussidio mensile è di circa 250 franchi, e proprio il sussidio, nella realtà dei fatti, condanna il disoccupato a una morte lenta per fame. I pubblici poteri assumono con franchezza questo stato di cose? Lo sanno? Si e no». Con un sussidio di 250 franchi al mese, osservava dunque l’attento Céline, bastano 4 anni per vedersi ragionevolmente morire di fame e questo perché «su quattro tedeschi il primomangia troppo, altri due mangiano secondo il proprio appetito e il quarto… Beh, il quarto crepa lentamente per denutrizione. Ecco un problema che un bambino di dieci anni, dotato nella media, potrebbe risolvere in dieci secondi. I sofismi invece la fanno da padroni, sofismi che sostituiscono le azioni, là dove – al posto di quel bambino – interviene l’ipocrita, raffinata, riserva della ragione adulta. Perché gli adulti hanno imparato brillantemente a ragionare, ma su basi palesemente false. Un problema non rappresenta più un problema, quando tacitamente si è giurato di fare di tutto per non risolverlo. Non si tratta di capitalismo o di comunismo. Si tratta di ordine e buona fede». Il fatto che Céline non nutra, né abbiamai nutrito alcuna speranza di emancipazione per la classe operaia fu già Paul Nizan a rilevarlo. Perché in Céline è all’opera – lo dimostra, tra l’altro, il puntiglioso lavoro di Germinario – una sfiducia sistemica, sistematica e radicale nella possibilità storica che le cosiddette classi subalterne possano ribaltare a loro vantaggio un processo di de-emancipazione che, nell’opera dello scrittore del Viaggio, sembra tendere a un punto infinito. L’antropologia céliniana – che non solo è incline al pessimismo, ma oltre certi limiti sconfina nell’abiezione – mantiene però negli anni Trenta un suo dirompente profilo non privo di risvolti politicamente lucidi e persino profetici, nella sua prefigurazione distopica. Céline è un antiutopista, ma non ha bisogno di vagheggiare Nuovimondi o nuove ere. Le ha viste, toccate, ne scrive. Nella «massa di inerzia civica», nelle «bestie senza fiducia» che (s) qualificano la condizione operaia a condizione di sub umanità e dannazione perenni, Céline vede il peggior prodotto della bestia capitalistico-finanziaria.Un prodotto di quel luogo, la fabbrica, che altro non è se non il risvolto all’apparenza meno demoniaco di un letto d’ospedale. Masse di inerzia psico-fisica Il lavoro non nobilita l’uomo, non più della povertà, della miseria o della fame. Non più di un sussidio statale da 250 franchi al mese. Il lavoro presuppone, per il dottor Destouches e per lo scrittore Céline, una precondizione: la malattia. È la vita malata ad essere messa al lavoro, tanto che – scrive, in una nota sull’impiego nella fabbrica di Detroit – «non si vede di che malattie potrebbe essere malato un operaio al punto da non poter lavorare alla Ford». I postulanti, gli inetti, i disgraziati, le classi abbiette «sono le più gradite alla direzione dello stabilimento» che producono malattia e malattia richiedono, per mantenere uno status quo inerziale fondato non sulla progressiva decadenza dello spirito, ma dei corpi. Corpi affamati, stremati dalla fatica, incapaci di vita comune, «masse di inerzia psico-fisica», facilmente corrompibili, perché già fiaccate e corrotte. La malattia e l’avvilimento, la disgrazia e l’inerzia sono per lui condizioni essenziali e costitutive dell’impiego in fabbrica. Non ambisce a questo, né registra il dato, oltre tutte le magnifiche sorti e progressive. La malattia come ultima risorsa umana, in unmondo che si vede inesorabilmente volto alla comune rovina. Senza classe e, forse, senza classi.

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