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La Repubblica Rassegna Stampa
03.09.2023 Mosca contro l’Occidente
Analisi di Rosalba Castelletti

Testata: La Repubblica
Data: 03 settembre 2023
Pagina: 37
Autore: Rosalba Castelletti
Titolo: «Mosca il vento dell’Ovest»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 03/09/2023, a pag.37, l'analisi di Rosalba Castelletti dal titolo "Mosca il vento dell’Ovest".

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Rosalba Castelletti

Nikolskaja ulitsa è una stradina pedonale tra palazzi ultracentenari nel pieno centro di Mosca. Ai due estremi i simboli del potere e della repressione: la Piazza Rossa col Cremlino e la Lubjanka, famigerata sede dell’ex Kgb, oggi Fsb. In mezzo il vento dell’Ovest che soffia forte. Sotto una pioggia di luminarie accese tutto l’anno, ragazzi con gli skate o i monopattini slalomeggiano tra comitive con le birre in mano, coppie sedute ai tavoli dei dehors e famiglie a passeggio. C’è musica che rimbomba dagli altoparlanti. Accanto alle aiuole ordinate dei grandi magazzini Gum, Vanja Spikee, nome d’arte, petto nudo, zazzera spettinata dal sudore, intrattiene una nutrita folla con battute e spericolate mosse di breakdance, la danza dei ghetti di New York. Più avanti, sullo sfondo degli stucchi gotici dell’ex Cantiere Tipografico, la prima tipografia di tutte le Russie, un gruppetto di ragazze in minigonna riproduce la coreografia di una band K-Pop. Mentre dalle parti della Vecchia Zecca un altro capannello di gente si è radunato attorno a due viole elettriche e a una batteria. Suonano le canzoni dei Metallica, icona di ribellione e testosterone che nel 1991, a pochi giorni dal crollo dell’Urss, qui tennero un concerto memorabile insieme ai Pantera e agli Ac/Dc. I tre giovani musicisti non erano ancora nati. Sono cresciuti in una Russia senza più Muri, né Cortine di ferro. Ad aprire i primi spiragli sulla vita in Occidente era stata l’Esposizione Nazionale Americana a Mosca del 1959. Un viaggio nel Paese delle meraviglie tra fotocamere Polaroid e decappottabili Dodge. L’allora vicepresidente statunitense Richard Nixon ingaggiò con Nikita Krusciov lo storico “dibattito in cucina” sui meriti del capitalismo rispetto al comunismo. A certificare la sua vittoria fu la foto del leader sovietico con una Pepsi in mano su tutte le prime pagine del giorno dopo. Quando il 31 gennaio del 1990, aprì il primo McDonald’s, in 30mila si misero in fila. Ma a celebrare il funerale del comunismo fu uno spot di Pizza Hut del 1997: il testimonial era Mikhail Gorbaciov, quello che un tempo era stato il leader ideologico e militare della potenza nemica degli Stati Uniti nel vecchio mondo dei due blocchi. Da allora Mosca si è lasciata travolgere dal fascino per tutto ciò che è occidentale. Il Disgelo è diventato una valanga. Una brama inquietante per chi, come Vladimir Putin, vuole preservare l’anima russa. Ma con l’offensiva moscovita contro Kiev è sorto un nuovo Muro, anche se non si vede. Una cortina che nessuno ha ancora battezzato. Nella tenaglia restano stritolati i giovani, schiacciati tra un regime che reprime ciò che resta delle loro libertà in nome di quelli che chiama «valori tradizionali» e l’Occidente che li boicotta in risposta ai massacri in Ucraina. Quell’eco di una terra promessa lontana resiste anche ora che qualsiasi cosa arrivi dal cosiddetto «Occidente collettivo » viene additato dalle autorità come «satanico» o «ostile». Ma non ci sonopiù ponti, soltanto isole. Un arcipelago sparpagliato di libertà. L’eterogenea combriccola di aspiranti Luke Skywalker e Principesse Leia si dà appuntamento ogni domenica nel Muzeon Art Park, il “cimitero delle statue sovietiche abbattute”. Ragazze coi capelli colorati stile manga, uomini col codino a mo’ di samurai, nerd occhialuti e giovani dal look dark. 

Tutti aspiranti cavalieri Jedi impegnati a combattere il lato oscuro. Mentre famigliole passeggiano tra i busti di Lenin e Krusciov, una statua di Stalin dal naso divelto e il monumento a Feliks Dzerzhinskij che un tempo svettava in Piazza Lubjanka, loro sguainano spade laser e ingaggiano duelli come inStar Wars . Da un lato i “senior” che si affrontano a singolar tenzone, dall’altro i “principianti” che replicano in gruppo i movimenti base. Quando l’insegnante grida Zascita , Difesa, eAtaka , Attacco, saltano in posizione disegnando cerchi luminosi nell’aria che s’intravvedono appena nei giorni di sole. Non c’è altro posto al mondo dove la Forza di Guerre Stellari abbia fatto più proseliti che nell’ex “Impero del Male”, come fu battezzata l’Urss da Reagan. La mitologia dei Jedi e dei Sith in Russia ha ispirato meme, parodie dei politici, pubblicità, ma anche Festival StarCon, giochi tematici, campionati. Incredibile a dirsi, è nata qui, nel 2000, la prima scuola al mondo di “combattimento con spada laser”, sport ufficiale riconosciuto dal governo russo come ramo della scherma artistica. Lightsaberfighting , più spesso abbreviato come saberfighting , viene chiamato in russo, raro caso di parola inglese non importata, ma coniata in cirillico. «Ho imbracciato la mia prima spada laser da bambino. Ho ereditato dai miei le Vhs della trilogia originale. Ho perso il conto delle volte che le ho viste», racconta Vladislav, 33 anni, insegnante dell’Università russa di Tecnologia chimica cresciuto nel culto dei Jedi. Niente cognome, per carità. Di questi tempi quasi tutti mantengono una certa circospezione a parlare con il giornale di un Paese ostile, anche quando il tema è innocuo. «Il mio personaggio preferito? Darth Vader», risponde senza esitazione Dmitrij, gioielliere 27enne, capelli lunghi raccolti in una disordinata treccia. «Prendendo una spada laser tra le mani e riproducendo i movimenti dei film mi sembra di vivere dentro Star Wars ». È il fascino senza tempo di una galassia lontana lontana dove il male assume sempre forme nuove, mentre il bene resta fedele a se stesso. Aleksandra Milovidova, 26 anni, capelli viola, è istruttrice senior dello Studio Saberfighting Art, nato alla fine del 2010 da una costola della scuola. Assicura che non serve conoscere a menadito l’Universo Espanso per impugnare una spada laser, anche se molti dei combattimenti che vengono messi in scena «si ispirano alla Battaglia degli Eroi, il duello tra Obi-Wan Kenobi e Anakin nella Vendetta dei Sith, terzo episodio della saga». Ce ne dà una dimostrazione Valerij, due volte campione russo, che si vanta. «Noi russi siamo stati i primi. Il è nato qui. Ora è diventato popolare anche da voi, ma tutto è partito da qui», insiste. E dire che nell’Urss il primo episodio circolò dapprima come videocassetta pirata, doppiata da un’unica voce. Nelle sale sbarcò soltanto nel 1990, 13 anni dopo la sua uscita. «Un western galattico», pubblicizzavano i poster. Oggi succede lo stesso. Un miraggio chiamato Barbie Land In ulitsa Kuznetskij Most c’è più movimento del solito. L’Omg Coffee ha lanciato un menù speciale: hamburger “Barbieque”, dessert “I’m a Barbie Girl” e formaggio rosa. E ha allestito una scatola delle bambole a grandezza naturale. Madri e figlie si mettono ordinatamente in fila per posare con i cartonati di Margot Robbie e Ryan Gosling per una foto degna di Instagram — che in Russia sarebbe bloccato, ma lo usano tutti con una Vpn. Barbie , il film di Greta Gerwig, è diventata un’ossessione anche se nelle sale russe non è ancora arrivato. Insieme alle altre major di Hollywood e alle piattaforme di streaming, la Warner Bros ha abbandonato la Federazione in risposta al conflitto in Ucraina. Alcuni cinema riescono ad aggirare il boicottaggio con uno stratagemma tutt’altro che legale: acquistano via Telegram copie digitali di film dal Kazakhstan e le distribuiscono senza autorizzazione. È così che i russi hanno potuto vedere Fast X e Avatar 2 . Ma da luglio il contrabbandiere kazako di pellicole vende soltanto copie da siti di streaming. Perciò per Barbie bisogna aspettare. Finora pochi lo hanno visto. Proprio come Star Wars sotto l’Urss, viene smerciato sottobanco. Lo studente 21enne Vladimir Shushvalov ha speso 30mila rubli, 300 euro, per volare fino ad Astana per la première mondiale. Tatiana Tuzova, orgogliosa collezionista di 12mila bambole Mattel, ha scaricato una copia in georgiano da Torrent. Per tutti gli altri il film Barbie non è che una fantasia. Il miraggio di un mondo glitterato e scintillante al di là dell’invisibile cortina. Una Barbie Land lontana dal presente opaco in cui si ritrovano a vivere. Dove non può succedere nulla di brutto, niente guerre, niente mobilitazione. Una mania che ha contagiato persino alcune deputate della seriosa Duma, la Camera bassa del Parlamento, che si sono presentate a una sessione tutte in rosa. Celebrità e influencer hanno inondato i social di foto e video sulle note di I’m a Barbie Girl degli Aqua. Diversi locali di Mosca hanno organizzato eventi a tema. Il bar Rovesnik (Coetaneo), ritrovo della Generazione Z, con i bagni gender neutral , ha organizzato una festa. Dresscode: “Barbiecore”. Per l’occasione Ekaterina Sukhobrus, che lavora per un canale YouTube, ha fatto incetta di vestiti rosa. «Questa è un’isola di libertà in mezzo a tutte le nuove leggi ». Un riferimento ai divieti della propaganda Lgbt e delle transizioni di genere. Ma c’è già chi pensa a mettere nuovi paletti. Come la deputata Maria Butina che vorrebbe la messa al bando della bambola perché promuove «le relazioni omosessuali». E il ministero della Cultura ha fatto sapere che il filmBarbie , come Oppenheimer , «non soddisfa gli scopi e gli obiettivi fissati dal capo dello Stato per preservare e rafforzare i valori spirituali e morali tradizionali russi». Nulla di nuovo. Nel 2002 il ministero dell’Istruzione aveva inserito le bambole nella lista di giochi «di produzione estera» considerati «dannosi» perché «risvegliavano gli impulsi sessuali» e «incoraggiavano il consumismo». Già quando le Barbie fecero la loro prima comparsa nell’Urss, erano considerate creature di un altro mondo perché insegnavano alle bambine che potevano giocare a diventare donne oltre che madri. «Barbie è un modello», ha detto alla stampa Tuzova. «Il suo slogan è “Puoi essere qualsiasi cosa”. Guardandola, ho capito che posso esserlo anch’io». Ma nella Russia post-operazione militare speciale, non è più così. Un tempo li chiamavano chelnokì , dal nome della spola, chelnók , dei telai. E anche loro “facevano la spola” avanti e indietro. Erano contrabbandieri riconvertiti che, crollata la Cortina di ferro e permesso il libero scambio, si erano inventati un nuovo mestiere. Si riversavano all’estero per comprare tutte le merci che mancavano. Poi le rivendevano in patria trasportandole in enormi borsoni a quadretti diventati l’icona di un’epoca a cui la Russia non voleva più tornare. Speranza delusa. Con l’esodo di migliaia di brand occidentali per protesta contro il conflitto in Ucraina, la professione deichelnokì è tornata di moda. Ma ora che c’è Internet e che le compagnie aeree internazionali hanno sospeso i voli diretti, questo mestiere corre online e ha anche un nuovo nome, inglese: quello dibuyer , acquirente. «La professione a dire il vero esisteva già prima che le griffe occidentali abbandonassero il mercato russo», precisa Diana Zeletdinova al telefono da Krasnodar, Sud della Russia. «Prima ibuyer compravano in Europa vestiti e accessori di lusso perché i prezzi all’origine erano molto più economici che qui. Ai tempi ero una cliente, adesso sono diventata una buyer io stessa ». Trent’anni, stilista, si è lanciata in questo nuovo business un anno e mezzo fa insieme al marito Zufar. «C’è così tanta domanda che abbiamo bisogno di essere in due». Andati via H&M e Zara, ricorda, non trovava più vestitini dal buon rapporto qualità-prezzo per la figlia Emilia, che allora aveva sei mesi. Perciò ha deciso di darsi da fare. Ha cominciato così. Oggi ha recensioni a cinque stelle sul sito di annunci Avito e sul social network Vkontakte. Tratta H&M e tutti i marchi della multinazionale spagnola Inditex, da Zara a Bershka. Li acquista in Turchia perché i prezzi sono più bassi e i collegamenti più veloci. E lì ha una “manager”, chiama così l’intermediaria. Come funziona? «Ricevo un ordine dal cliente, verifico la disponibilità del prodotto sul sito online del brand in Turchia e, se disponibile, contatto la manager che lo ordina e me lo spedisce. Poi smisto da Krasnodar. Al cliente, oltre al prezzo del prodotto, chiedo una commissione del 15-20% che divido con la manager in Turchia». Ogni settimana Zeletdinova “importa” tra i 20 e i 40 chili di vestiti dalla Turchia. I prodotti più gettonati? Scarpe e vestiti, spesso per bambini. E in particolare jeans e t-shirt buone per una solastagione. Il Diavolo in Russia non veste più Prada. Il Diavolo veste Zara. Parrucchieri barbuti e tatuati acconciano i loro clienti al suono dell’hard rock. Con i suoi mattoncini a vista, le poltroncine in pelle della giapponese Takara Belmont e gli scaffali pieni di gel e cere della Truefitt & Hill, fornitrice della casa reale britannica, “Boy Cut” potrebbe trovarsi a Londra o a New York. E invece siamo a Mosca, nel cuore di Krasny Oktjabr, l’ex fabbrica di cioccolata Ottobre Rosso che guarda il Cremlino dall’isola Baltschug. Raccontano che, in questa barberia aperta dieci anni fa, all’inizio ci fosse sempre una bottiglia di Jack Daniel’s dietro al bancone da offrire ai clienti. Ora, per timore di multe, tutt’al più si versa qualche birra. Quello dei barbershop è un fenomeno recente. Fino al decennio scorso la parola russa per “barbiere” era piuttosto insolita: parikmakherskaja , letteralmente “fabbricante di parrucche”. 

Mentre le donne potevano prendersi cura delle loro acconciature negli onnipresenti salon krasoty , saloni di bellezza, una novità degli anni Novanta, gli uomini dovevano accontentarsi di farsi tagliare i capelli nel retrobottega di un ferramenta o di un fioraio. Preoccuparsi troppo del loro aspetto, per altro, avrebbe potuto sollevare sospetti sulla loro mascolinità. Oggi Mosca pullula dibarbershop , inglesi di nome e di stile. A dispetto di Putin che, qualche mese fa, ha approvato una legge che vieta le parole straniere, in particolari quelle in inglese, la lingua degli “anglosassoni”, come le autorità russe hanno preso a chiamare britannici e statunitensi. Il boom è iniziato nel 2010 con l’inaugurazione del primo “Chop Chop”, brand che oggi conta sette punti a Mosca e oltre 80 in franchising in tutta la Russia ed ex Urss. «Non ci aspettavamo che sarebbe apparso un vero e proprio movimento e che la parola barbershop avrebbe smesso di suonare aliena all’orecchio russo», racconta il cofondatore Aleksej Ermilov. Un anno dopo è stata la volta di “Mr. Right” lanciato da due Aleksander, Rymkevich e Kulish, entrambi giornalisti, che si sono ispirati alla tradizione londinese nella rasatura e allo stile americano nel design. La sua inaugurazione nel quartiere art nouveau Patriarshie Prudy, gli Stagni del Patriarca, è stata l’evento del 2012 secondo I cofondatori di “Boy Cut” sono saltati su questo treno quando stava prendendo velocità. «L’idea è venuta per caso ad Andrej Shubin e Nazim Zejnalov mentre passeggiavano per Londra insieme alla star di Pervyj Kanal Aleksandr Gudkov. Si sono imbattuti in un parrucchiere da uomo o, come viene chiamato lì, un barbershop, e si sono chiesti perché in Russia non ci fossero ancora», racconta il direttore 35enne del brand. Un gigante tatuato. Solo il nome: Ilja. Due mesi dopo “Boy Cut” apriva a Ottobre Rosso. «Qua ci sono i nostri clienti ideali: 25-45 anni, studenti o uomini d’affari che vogliono curarsi. Hipster. Ma noi li chiamiamo yakki dall’inglese yuccies che sta per young urban creatives”, giovani urbani creativi. Uno dei primi clienti è stato Ivan Urgant», il conduttore diventato popolare in Italia con Ciao2020 eCiao2021. «È tutta una questione di immagine. Avere qualcosa di occidentale ècool», commenta l’avventore trentenne Maksim. «Non importa di che cosa si tratti: se qualcosa che indossi o che mangi». Ora ibarbershop si stanno espandendo anche nelle regioni della Federazione. Non solo Chop-Chop, MrRight o Boy Cut, ma anche Big Bro, TopGun. Tutti nomi “anglosassoni”. Il monumento di Vladimir Lenin in piazza Kaluga, un tempo Oktjabrskaja, è uno degli spot più gettonati. La sua base in granito e i suoi gradoni sono flutti perfetti da cavalcare per gli skater di Mosca. Una bizzarra linea di contatto tra il passato sovietico e la fascinazione occidentale. In Russia lo sport nato tra i surfisti di Los Angeles in astinenza da oceano nei giorni di calma è arrivato con almeno due decenni di ritardo. Un’onda lunga, come tutto quello che è approdato dagli States in tempi di Guerra Fredda. La distanzatra le spiagge di Venice e la glaciale steppa russa, del resto, non si misura soltanto in chilometri. All’inizio, racconta il 37enne Kirill Korobkov, reduce dal Grand Skate Tour a Gorkij Park con oltre 150 partecipanti da 40 Paesi, bisognava costruirsi le tavole da sé e itrick si imparavano guardando le videocassette. Le prime tavole prodotte dalle fabbriche militari russe erano piatte e con freni e ruote in gomma. Buone per lo slalom, ma non per lo street-skating. «Dopo il crollo dell’Urss, il problema era procurarsi uno skate decente. Non esistevano negozi. Bisognava andare all’estero. Ma se pattini molto, devi cambiare la tavola almeno ogni due mesi. Soltanto all’inizio del nuovo millennio sono stati aperti i primi shop e skatepark e hanno iniziato a fiorire anche brand locali. Poi è arrivata la gente interessata non solo a fare skate, ma a filmarlo, fotografarlo, scriverne e viaggiare. I tour dicrew europee e statunitensi erano normalità. È stata tutta una salita fino al 2022». Nomina soltanto l’anno. T-shirt oversize, calzoni larghi e un cappello da baseball calato sulle ciocche ribelli, Korobkov si definisce «skater, attivista dello skateboarding e ricercatore sulla sottocultura dello skate nelle terre post-sovietiche». «La mia passione è iniziata intorno alla fine degli Anni ’90 nella città di Cheboksary, capitale della Ciuvascia sul Volga», racconta. Dopo aver viaggiato tanto, complici le sue collaborazioni con Vans e Redbull, Kirill non ha dubbi quando sentenzia: «Mosca è una delle città migliori al mondo per lo skateboard da strada. Sembra fatta per skateare». Adesso lo sport è una disciplina così diffusa da vantare campioni come Maksim Kruglov, classe 1989, soprannominato “Mad Maks” per le sue folli acrobazie. Originario di Chudovo, 13mila abitanti appena, al confine tra le regioni di Novgorod e Leningrado, giocava a calcio fino a quando, nel 2005, nel cortile di casa sua, è comparso il primo skateboard cinese con freno e ruote di plastica. «Lo cavalcavamo a turno. Lo avevo visto nei film americani e volevo provare. E mi sono ammalato di skate», racconta al telefono da San Pietroburgo. «Vivevo alla periferia dell’Urss, ma sognavo in grande. Forse è per questo che sono arrivato così lontano. Perché lo desideravo tanto». Nel 2013 la consacrazione: «primo cittadino ex sovietico», lo sottolinea, a vincere una gara di Coppa del Mondo, la Simple Session in Estonia. Da lì la strada di Kruglov verso Tokyo 2020, debutto della disciplina alle Olimpiadi, sembrava spianata, finché non è arrivata la squalifica per doping. Adesso anche Parigi 2024 si allontana per via del boicottaggio degli sportivi russi in seguito all’offensiva in Ucraina. Il sogno olimpico sfuma. «Molti miei amici hanno lasciato il Paese. Io non sostengo la guerra, ma non posso andarmene perché amo la Russia e la mia famiglia è qui». Sono saltate anche le sponsorizzazioni di Nike o Redbull, ma a Kruglov va bene così. «Non ti serve poi molto. Soltanto un paio di scarpe, una tavola e un gruppo di amici. Per me lo skateboard è libertà». Korobkov è d’accordo. «Per me è pace, amicizia, cooperazione». Ma il “2022” ha cambiato tutto. «Adoro questo posto. È americano al cento per cento. Mi sembra di stare dentro a un film hollywoodiano», esclama Asia dopo aver finito di bere rumorosamente un «dolcissimo» milkshake alla ciliegia. Dall’altro lato del tavolo, Viktoria annuisce. Vegana, ha ordinato soltanto falafel e caffè nero. Matita nera interno occhi, gloss sulle labbra, delle due è lei l’habitué. «Se chiudo gli occhi, mi sento dentro aPulp Fiction di Quentin Tarantino». Con i suoi tavoli in fòrmica, i divanetti in pelle rossa, il jukebox con i successi di Elvis e Sinatra, lo scintillante diner aperto 24 ore su 24 “Beverly Hills” ai limiti di Chistye Prudy, è davvero una catapulta nello spazio e nel tempo. Le pareti a scacchi bianconeri sono decorate con manifesti e foto di divi di un tempo e con statue di Betty Boop o Marilyn Monroe. Anche il menu è un omaggio alla cultura pop americana, dall’hamburger al frappé. Ironia dei tempi, uno dei primi diner in Russia, “Starlite”, aprì proprio alle spalle di Lenin nell’allora piazza Oktjabrskaja. Fu prodotto in Florida e spedito in quattro pezzi, completo di quadri alle pareti e di sgabelli con pistone in acciaio inossidabile. Ci vollero quattro giorni per assemblarlo e non molti di più perché si formassero file all’ingresso. Oggi a Mosca si contano decine di ristoranti ispirati alle tavole calde del Midwest degli Anni ’50 e ’60. Nonostante autorità e tv continuino a fomentare l’antiamericanismo, le giovani generazioni amano ancora gli States del rock and roll. Asia e Viktoria hanno diciott’anni. Fanno parte della prima generazione post-sovietica cresciuta nell’epoca del consumismo. Non conoscono le privazioni dei “selvaggi” anni Novanta, né il trauma del crollo dell’Urss. Non paragonano la propria vita ai tempi andati, ma a quella dei loro coetanei all’estero. Quando viene fuori che all’Università studiano Lingue, passano subito dal russo all’inglese. «Così ci esercitiamo un po’». Dopo l’iniziale entusiasmo, la conversazione prende subito una piega politica. Questo posto, dicono, non è che un palliativo. Il 24 febbraio del 2022 è cambiata anche la loro vita, protestano. Anche se hanno pudore a parlarne. «Europei e americani sopravvalutano il nostro potere. C’è l’idea che, se fossimo in tanti a manifestare, riusciremmo a cambiare le cose. Ma basta vedere quel che è successo in Bielorussia. Nel 2020 la maggioranza della popolazione voleva che Aleksandr Lukashenko andasse via e tre anni dopo c’è ancora la repressione. Qui è la stessa cosa. Migliaia di persone sono scese in piazza, ma non è cambiato nulla se non che sono state torturate o incarcerate anche solo per aver mostrato una citazione di1984 di George Orwell», spiega Asia, originaria di Makachkala, Dagestan. Poi si lancia in una lunga tirata. «Mi manca tutto. I libri, la musica, i film. Cerco di non essere triste e di non lamentarmi, perché gli ucraini hanno perso molto più di noi. Me lo ripeto ogni giorno. Ma sono arrabbiata, non lo nascondo. Sono arrabbiata col nostro governo che ci ha messo in questo buco nero. E sono arrabbiata anche con l’Occidente perché i miliardari e i governanti continuano a fare la loro vita come prima. Gli unici a pagare il prezzo di sanzioni e boicottaggi siamo noi. Sono arrabbiata perché il mio futuro è segnato dallo stigma». Anche Viktoria si lamenta. «Ho vinto una borsa per andare a studiare in Norvegia, ma ho lo zero per cento di possibilità di ottenere il visto. E, seppure riuscissi ad andare, temo che verrei trattata da paria. Non ce l’ho con nessuno, ma è difficile da accettare. Soprattutto alla mia età quando pensi di avere ancora tutto il futuro davanti e di essere libera di poter fare tutto quello che vuoi. Ho paura di perdere i migliori anni della mia vita. Sto per entrare nei miei vent’anni e il mondo è chiuso per me». Chiude con un sospiro. Poi guarda alla finestra dalla sua isola di acciaio cromato e chincaglierie vintage come a cercare qualcuno o qualcosa che la porti al di là di quel Muro invisibile.

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