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La Repubblica Rassegna Stampa
27.08.2023 I soldati ucraini avanzano
Cronaca di Brunella Giovara

Testata: La Repubblica
Data: 27 agosto 2023
Pagina: 10
Autore: Brunella Giovara
Titolo: «“In trincea con i lupi”. Così i soldati ucraini avanzano sul fronte Sud»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 27/08/2023, a pag.10, con il titolo “ “In trincea con i lupi”. Così i soldati ucraini avanzano sul fronte Sud”, l'analisi di Brunella Giovara.

Kiev non ha opzioni

Succedono anche cose magiche, i lupi «che si buttano nella nostra trincea e si accucciano vicini. Tremano come noi, durante l’attacco. Quando è finito, se ne vanno». Tre notti fa è arrivata una vacca impazzita, voleva scendere sotto per trovare riparo. I soldati hanno pensato di ammazzarla, ma poi toccava seppellirla per via del caldo, e dove. E tutto questo succede in una cosa che viene chiamata giungla, ed è il fronte Sud dell’offensiva ucraina. La strada storta che porta a raggiera verso Melitopol, Berdiansk, Mariupol e infine alla Crimea, dove si coagulano molti sogni di vittoria e anche molto sangue, che i medici di prima linea cercano di fermare con iturniketi , ma non bastano mai. In una visione che è per lo più raso terra, e anche più sotto, dalla parte delle radici, dice un sergente che «questo è il nostro Ad», due sole lettere per dire Ade, il regno dei morti e dei morituri, che è caldo, umido e di odore terroso, poi insopportabile. Ma «stiamo di nuovo pronunciando la parola davai », cioè avanti, verso il mare miraggio, combattendo da Robotyne verso Tokmak, e arrivando ieri a Verbove da una parte e quasi a Novoprokopivka dall’altra, cercando di superare la linea di difesa creata dal generale Surovikin. Gli ucraini però la chiamano Mannerheim. Guerra finnico-russa, inverno 1939-40, la linea costruita dai finlandesi e considerata invincibile, venne poi superata, dai russi. Soldato, cosa ti fa più paura? Bisogna stare attenti, a fare questa domanda, perché magari ti risponde uno che indica il cielo con la mano,ma la mano non c’è più. Allora un altro fa una voce mostruosa, allargando le braccia come se stesse volando, mima l’arrivo di un qualcosa di terribile che è l’Alligator, «hai mai visto gli elicotteri russi? Veniva basso e dritto contro di noi. Il rumore è tremendo. E non bisogna guardarlo in faccia!», come non bisogna guardare una gorgone, «devi solo saltare nella trincea e scavare ancora un po’, con le mani. Più a fondo vai, meglio è». Il soldato è della 47esima brigata e si chiama “Schum”, schiuma, è un nome di battaglia leggiadro ma lui è ancora sporco e puzzante, però si è appena comprato gli occhiali Prada, quindi è felice. Tra due giorni rientra nella postazione, non può dire dove perché è «zona di responsabilità », basta un selfie a tua moglie e i russi ti geolocalizzano, e se c’è un ucraino scemo che si fa la foto, ce ne sono altri che stanno lavorando duro, prenderli tutti è sempre un bel colpo. «Ti spiego com’è il terreno», dice Vadym, marines della 35esima. «Perché io lo so cosa pensi tu, che noi siamo lenti, che non ce la facciamo a sfondare… Allora, non è che ci manca la tecnica», e qui intende i tank Leopard, i blindati, le munizioni. «È che ci sentiamo nudi come i vermi della terra. Certe volte io sogno che arriva un aereo nostro, non è importante che sia un F16. Ma è un bombardiere moderno, io lo sento arrivare alle mie spalle e lui ci spiana la strada fino al mare. Basta un giorno, e lui fa una striscia larga e lunga quel che basta. Dopo, noi avanziamo veloci. Senza, non si può». O si può, ma con un ritmo lento, antico. Un paese dopo l’altro, una casa, una trincea, un altro villaggio. «Abbiamo 20 aerei, vecchi. Il generale Zaluzhny l’ha detto chiaro agli americani: ‘mi serve un numero limitato di caccia, ma mi servono. Sennò è come se combattessimo con l’arco e le frecce’. Ma lo sa persino mia madre Valentyna, che serve la copertura aerea». A volte Vadym sogna anche di mangiare un cioccolatino, e se l’è appena comprato al baretto davanti all’ospedale. Nella giungla sarebbe certo più buono, ma non può neanche metterselo in tasca perché si squaglierebbe, come tutto si scioglie ai 40 gradi. Ogni tanto piove, si alza una nebbia gialla, i soldati sono marci già all’alba. Il terreno è steppa. Ettari, chilometri di erbe ora secche e fruscianti. Ogni tanto, filari di piante, e boschetti di querce, olmi, betulle che non diventeranno mai grandi. Il fuoco di artiglieria spiana gli alberi, che esplodono in mille schegge, e a volte si muore di questo. Una scheggia di legno che trapassa il collo, non c’è neanche il tempo di dire beh. Qui vivono umani e animali, tutti lievemente allucinati. Gatti isterici. Capre sperse. Uomini che non dormono mai. E «non si mangia mai niente di caldo. E l’acqua! Vorrei sempre tanta acqua, ma ne arriva poca», il soldato Ihor ha 59 anni, poteva starsene a casa ma si è arruolato, ossuto e barbuto, montanaro dei Carpazi abituato a faticare, aspettando «quando spara il cannone, quando spara il tank. Di fronteabbiamo il T90, che è un gran bestione. Spara ad alzo zero. Quando senti lo sparo, il colpo è già arrivato ». Di fronte, le trincee russe della Mannerheim, «noi cerchiamo di prenderle alla sera o al mattino», nella mezza luce che inganna. A volte sono vuote. «Allora, prima bisogna chiamare lo specialista che le bonifichi dalle mine. Poi dobbiamo adattarle, ‘girarle’ dalla parte dei russi, rifare le postazioni. In fretta, tutto in fretta». L’altro giorno è morto un artificiere. È un lutto più grave degli altri. «Lo sminatore lavora per te, per far avanzare i carri armati e i blindati lungo una pista sicura. È un lavoro delicato, e sono così pochi». Ci vorrebbero le macchine Kroton, «ce le hanno date i polacchi, ma non bastano. Lanciano in avanti una palla incatenata che fa esplodere le mineanticarro, lì si apre il corridoio». Oppure «gli spariamo. Bang! E quella esplode. Così puoi andare avanti un po’», fino alla prossima. Intanto, il Bradley carico aspetta con il motore acceso. Al via libera, riparte. Ma certe volte le mine anticarro sono doppie, «la prima, in vista. L’artificiere la disinnesca. Ma resta quella sepolta sotto. Passa il tank, e salta in aria», diavoli di russi. Uno di occhi azzurrissimi spiega che la cosa peggiore «sarebbe perdere una gamba, o tutte e due. O una mano, o tutte e due. Penso che allora vorrei morire». Ma si può morire facilmente per altre trappole scherzose, «tu non le vedi, ma ci sono », certi fili trasparenti che penzolano tra i cespugli, da una parte c’è un amo da pesca che «ti si impiglia alla giacca, o all’elmetto, e fa scattare il detonatore». Il primo della fila esplode, gli altri arretrano. Un altro Vadym è capopattuglia: «Abbiamo mandato avanti la prima, li ho visti partire bassi, sparire nella macchia verde. Non tornavano. Dopo tre ore è partita la seconda. Abbiamo aspettato, poi siamo andati noi». Ci ha molto ripensato, a quel momento, «perché tra i miei dieci, uno si è appena sposato, un altro ha due bambini piccoli». Ma eccoli qui, vivi. La pattuglia 1 e 2, no. Si sta ciascuno nella propria buca, così c’è più speranza di salvarsi, «più una buca solo per le munizioni ». Una buca dopo l’altra, sembra un cimitero, ma scavato da un becchino ubriaco. C’è anche la noia, il riposo obbligato, i boschetti sono «il posto della depressione, perché aspetti per ore che arrivi l’ordine su Signal, di alzarsi e andare a combattere, ci dividono in squadre e assegnano il settore». E ci sono sempre nuove sorprese, come i due russi trovati impiccati dagli incursori,«forse erano disertori. Avevano un cappuccio nero in testa, le mani legate dietro la schiena. Appesi per i piedi. Ho pensato: saranno minati? Il mio amico li ha sfiorati con la punta del fucile. Dondolavano» nel silenzio, si sentivano solo le mosche, li hanno lasciati lì, vicino a una specie di capanna di rami e foglie. E ci sono anche le foglie cattive, le «foglioline»,i«petali»,mineantiuomoverdi, o rosse e gialle a seconda della stagione. Perciò si spera di arrivare al mare prima che il gelo faccia cadere quelle vere, sennò si resta nudi come vermi, diceva quel Vadym. «E io, io sono l’ultimo. Quello che raccoglie i pezzi, li mette nel sacco e li porta indietro». Yaroslav, uno che balbetta (da quando è al fronte, prima no). L’esercito lo ha mandato in Inghilterra per il corso, ha imparato la medicina da trincea. «Stabilizzo i vivi, cerco di portare via i morti. Sono quello che li benedice, lì, subito. Non possiamo lasciare nessuno solo», neanche i pezzi. Nello zaino da medik ha 8 tourniquet, i lacci emostatici di emergenza, «più 4 personali, come tutti». Tre per ogni soldato, il quarto per il compagno che devi salvare, quello che non ha più le mani, che è svenuto, che è sotto shock, che vede tutto nero per qualche minuto o per sempre. Se lo salvi, «sarà tuo fratello per sempre», se lo porti fuori dal regno di tenebra.

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