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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica Rassegna Stampa
30.04.2023 Israele, i primi 75 anni - parte 2
Commento di Enrico Franceschini

Testata: La Repubblica
Data: 30 aprile 2023
Pagina: 37
Autore: Enrico Franceschini
Titolo: «Israele, i primi 75 anni»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/04/2023, a pag. 37, il commento di Enrico Franceschini dal titolo "Israele, i primi 75 anni" - parte 2.

ENRICO FRANCESCHINI | Cristofariphoto
 Enrico Franceschini

Israel Declaration of Independence | CIE
La dichiarazione di indipendenza

segue dalla pagina precedente

Ma i nazisti perdono la guerra, Hitler si suicida, il Muftì fugge e una terribile scoperta contribuisce a rafforzare l’idea di un “focolare nazionale ebraico”: l’orrore dell’Olocausto. Si profila così una soluzione “salomonica”: dividere la Palestina britannica fra i due litiganti. Il pomeriggio del 29 novembre 1947 i rappresentanti di 56 Paesi delle neonate Nazioni Unite si riuniscono a New York per votare la risoluzione numero 181. Essa prevede che una terra due volte più piccola della Danimarca, cinque volte meno popolosa del Belgio, venga spartita formando due Stati distinti, uno per gli ebrei e uno per gli arabi. Il 57 per cento del territorio verrebbe assegnato agli ebrei, sebbene fino a quel momento siano più numerosi gli arabi. Il Muro del Pianto, il Santo Sepolcro e la Moschea della Roccia, luoghi santi delle tre religioni monoteistiche, dentro le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, sarebbero sotto controllo internazionale. La risoluzione passa con 33 voti favorevoli, tra cui quelli di Stati Uniti e Unione Sovietica, 13 contrari e 10 astenuti. Le delegazioni arabe lasciano l’aula per protesta. Si lamentano di essere chiamate a pagare un prezzo per la cattiva coscienza dell’Europa nei confronti dell’Olocausto: perché non sono gli Stati europei a offrire agli ebrei una terra, visto che sono loro ad averli sterminarti nei lager? Scoppierà una guerra, avverte il rappresentante arabo, cugino del Gran Mutfì che aveva abitato nella Berlino di Hitler, e gli eserciti dell’intero mondo arabo getteranno a mare gli ebrei. Alla mezzanotte del 14 maggio 1948, David Ben Gurion pronuncia la dichiarazione di indipendenza. La nuova nazione si chiamerà Israele, dice il suo fondatore, dal termine biblico che appare nel libro della Genesi, quando Dio cambia nome a Giacobbe chiamandolo appunto Israele, capostipite degli israeliti, la stirpe che governerà la Terra Promessa. Qualcuno ritiene che la dichiarazione d’indipendenza debba indicare le frontiere del nuovo Stato, seguendo il tracciato indicato dalle Nazioni Unite. Ben Gurion dissente. Considera quelle frontiere in più punti indifendibili, nella prospettiva ormai evidente di una conflittualità prolungata con gli arabi. Del resto, afferma, gli arabi hanno respinto il compromesso sulla partizione. «Lo Stato che proclameremo al termine della guerra – conclude – non nascerà da una risoluzione dell’Onu, bensì da una situazione di fatto». Gli eserciti di cinque Paesi arabi attaccano gli ebrei, ma a prevalere sono questi ultimi, meglio armati e più determinati. Quando le due parti proclamano il cessate il fuoco, Israele si ritrova con uno Stato più ampio del territorio che le avrebbe assegnato il Palazzo di vetro, pur senza riuscire a prendere la Città Vecchia di Gerusalemme. In quella che gli ebrei chiamano la loro “guerra d’indipendenza”, e che gli arabi chiameranno “ nakba ”, la tragedia, Israele ha avuto più di 6mila vittime fra soldati e civili: in proporzione, più morti di quanti ne ebbe la Francia nella Seconda guerra mondiale. Alle migliaia di perdite arabe vanno aggiunti 700mila palestinesi costretti a evacuare le zone conquistate da Israele: finiranno in campi profughi sparsi per il Medio Oriente. Restano in mano araba, tuttavia, Cisgiordania e Gaza: per i successivi vent’anni, la prima apparterrà alla Giordania e la seconda all’Egitto. Ma i governi di Amman e del Cairo non le offrono ai palestinesi, affinché ne facciano una patria: le tengono per sé. Otto anni dopo scoppia un’altra guerra, per il possesso del canale di Suez, nazionalizzato dall’Egitto: alleate degli inglesi, le forze israeliane avanzano verso il Cairo, finché l’America ferma tutti per evitare un conflitto con l’Urss. I Paesi arabi cercano di prendersi la rivincita nel 1967, mobilitando i propri eserciti alla frontiera, ma Israele lancia un formidabile attacco preventivo: distrugge a terra tutta l’aviazione nemica, penetra in territorio avversario a Sud e a Nord. In appena sei giorni la guerra è finita. Un leggendario generale israeliano con la benda all’occhio, Moshe Dayan, guida le operazioni insieme al capo di stato maggiore Yitzhak Rabin. Quest’ultimo riceve il compito di dare un nome al conflitto, come riconoscimento della sua eccezionale abilità strategica. Circolano varie proposte: la Guerra del coraggio, la Guerra della salvezza. Rabin sceglie la Guerra dei sei giorni, evocando i sei giorni della creazione secondo la Bibbia. La guerra, in effetti, ha ricreato Israele, che si allarga all’intera penisola del Sinai, a tutta la Cisgiordania, alle alture del Golan, al confine con la Siria e alla Città Vecchia di Gerusalemme. La foto di due parà israeliani che guardano commossi il Muro del Pianto diventa emblematica: lo Stato ebraico ha di nuovo quel che resta del tempio di re Salomone. Ma oltre che della terra, Israele si impadronisce dei milioni di arabi che la abitano. Per rafforzare il controllo sui palestinesi sconfitti e ostili, il governo israeliano approva la costruzione di insediamenti civili in Cisgiordania e Gaza: le “colonie ebraiche”, come verranno chiamate dalla comunità internazionale, che l’esercito protegge con strade speciali e posti di blocco. Nei Territori occupati, come da allora la diplomazia internazionale definisce Cisgiordania e Gaza, comincia così a crescere un sentimento che fra il ‘48 e il ‘67, quando facevano parte di Giordania ed Egitto, era debole o carente: la determinazione palestinese ad avere uno Stato. Trascorrono altri sei anni e, nella guerra dello Yom Kippur, scatenata dai Paesi arabi con un attacco a sorpresa nel giorno più sacro del calendario religioso ebraico, Israele per alcuni giorni rischia di soccombere: quindi contrattacca e, con un altro generale, Ariel Sharon, benda sulla fronte per una ferita, arriva a 100 chilometri dal Cairo. Nel 1982, il medesimo Sharon guida gli israeliani fino a Beirut per mettere fine alle incursioni dell’Organizzazione per la Liberazio ne della Palestina capeggiata da Yasser Arafat, così costretto a rifugiarsi a Tunisi: una milizia cristiano-maronita alleata di Gerusalemme massacra i palestinesi dei campi profughi di Sabra e Shatila, senza che Sharon intervenga, secondo alcuni con la sua complicità. La guerra del ’48, la guerra del ’56, quelle del ’67 e del ’73, l’invasione del Libano nel 1982, negli anni 90 la prima Intifada, la rivolta palestinese con le pietre, nei primi anni Duemila la seconda Intifada, i terroristi kamikaze alle fermate dei bus, poi le guerre contro Gaza, dopo il ritiro israeliano dalla Striscia nel 2005, e avanti così, fra attentati e rappresaglie, fino ai giorni nostri. Tutte insieme fanno la guerra più lunga che il mondo moderno abbia conosciuto. Ed è una guerra fra nemici che si contendono lo stessoclaustrofobico spazio: nel punto più stretto, all’altezza del Ben Gurion, suo unico aeroporto internazionale, Israele è larga appena 12 chilometri. Il processo Negli anni in cui ho vissuto in Israele, dal 1997 al 2003, mi è capitato di incontrare persone con i numeri sul braccio: il marchio di identificazione che i nazisti imprimevano ai prigionieri dei campi di concentramento. Vederli sorridere, giocare con un nipotino in un parco, mangiare un piatto con gusto al ristorante, mi trasmetteva un senso di meraviglia e ammirazione. Non solo erano riusciti a sopravvivere all’orrore più grande conosciuto dall’umanità, ma avevano anche saputo rifarsi una vita, apparentemente normale. Che forza e che coraggio straordinario ci volevano! Ma non c’è stato sempre un sentimento di ammirazione e di orgoglio, in Israele, per i superstiti della Shoah. Da un lato, alcuni provavano la vergogna di essere sopravvissuti: perché io sono vivo e i miei familiari, amici, compagni di sventura sono morti? Dall’altro lato, i sionisti che si erano lasciati alle spalle la buia Europa dei ghetti per costruire un proprio Stato nella luce della Terra promessa mediorientale non si riconoscevano negli ebrei trucidati nei lager: i pionieri che avevano forgiato con la zappa e con il fucile uno stato indipendente sentivano di appartenere a un nuovo tipo di ebrei. “Pecore al macello” è stata a lungo l’espressione per identificare le vittime della Shoah: quasi ci fosse una qualche loro corresponsabilità nello sterminio, una mitezza, come quella delle pecorelle, che aveva impedito di ribellarsi. È una falsa immagine, smentita da tanti resoconti sulle ribellioni di partigiani ebrei contro i nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale. Ma niente ha cambiato la percezione della Shoah in Israele e nel mondo come il processo del 1961 a Adolf Eichmann, il criminale di guerra nazista responsabile del trasporto degli ebrei nei lager, catturato dal servizio segreto israeliano in Argentina, trasportato clandestinamente in Israele e lì processato, condannato, impiccato: l’unica condanna a morte eseguita nei 75 anni di esistenza dello Stato ebraico. La cattura e il processo di Eichmann hanno infatti messo sul banco degli imputati non soltanto il nazismo, come aveva già fatto il Processo di Norimberga ai gerarchi del Terzo Reich, bensì l’antisemitismo in quanto tale: un antisemitismo che poteva avere anche i modi e il volto in apparenza pacifici di un uomo che per difendersi diceva «Io non odio gli ebrei, ho soltanto eseguito gli ordini». Quella che la filosofa Hannah Arendt, in un reportage per il New Yorker diventato proverbiale, descrisse come “la banalità del male”. Nel 2012, sessant’anni dopo il processo, il Mossad organizza al Museo del Popolo Ebraico di Tel Aviv una mostra sulla cattura dell’architetto dell’Olocausto. «Fino al processo di Eichmann, in Israele nessuno parlava apertamente degli orrori dell’Olocausto», ammette Ahinoam Armoni, direttore del museo. «Molti sopravvissuti tacevano, perfino con i propri figli. La cattura e il processo sono stati come l’apertura di una diga per noi. Io stesso sono cresciuto dicendomi: non sono un ebreo, sono israeliano. Di colpo, da quel momento, siamo stati in grado di confrontarci con la nostra storia». Vivere con il terrorismo Bisogna trascorrere un po’ di tempo nello Stato ebraico per comprendere cosa significhi vivere sotto una continua minaccia. Durante la Seconda Intifada, ogni volta che andavo a cena fuori, sceglievo se possibile un tavolo nella parte più isolata del ristorante, quella con meno clienti, dove un possibile terrorista suicida avrebbe avuto meno interesse a farsi esplodere o a nascondere una bomba, in modo che i miei familiari ed io avessimo una chance in più di salvarci. Piccoli accorgimenti di vita quotidiana, che a chi vive in un’altra realtà sembrano un peso insopportabile: ma gli israeliani hanno imparato a conviverci. Nessuna nazione al mondo ha dovuto affrontare la minaccia del terrorismo tanto a lungo. Attacchi avvenuti non solo sul proprio territorio, ma ovunque nel mondo si trovassero cittadini e possibili bersagli israeliani o ebraici. Ci sono stati attentati contro sinagoghe, aerei, navi, sedi diplomatiche e di aziende, fermate dei treni e degli autobus, ristoranti, bar, discoteche, supermarket, centri commerciali o semplicemente strade affollate di uomini, donne e bambini, come avvenuto quest’anno alla vigilia di Pasqua, quando un turista italiano è stato ucciso da un terrorista sul lungomare di Tel Aviv. Per la stessa ragione, nessun altro Paese ha accumulato una esperienza simile nel combattere il terrorismo. Uno degli attacchi terroristici più eclatanti è quello lanciato da un commando palestinese alle Olimpiadi di Monaco del 1972, in cui muoiono 11 atleti israeliani. Sia pure con riluttanza, la premier Golda Meir autorizza l’Operazione Furore di Dio, per individuare e uccidere i responsabili dell’attentato, dovunque si trovino. Dopo il processo a Eichmann e la vittoria nella Guerra dei Sei Giorni, un senso di euforica sicurezza si era diffuso per Israele, come se i fantasmi del passato, l’antisemitismo, l’Olocausto, fossero vinti per sempre. L’attentato di Monaco fa precipitare di nuovo gli israeliani nello sconforto. Anche per questo Golda Meir ordina una risposta esemplare. Fra le missioni affidate alle forze speciali e al Mossad, c’è quella di uccidere tre palestinesi a Beirut. Un commando israeliano sbarca in Libano. Li guida un pluridecorato ufficiale di nome Ehud Barak. Molti anni dopo, quando Barak è già un ex primo ministro, gli domando se davvero quella notte a Beirut, per non farsi riconoscere, lui e i suoi compagni si erano travestiti da donna. «Certo, non è qualcosa che si può dimenticare, sa?», mi risponde. «Voglio confidarle una cosa. Quando fui nominato capo di Stato Maggiore delle forze armate israeliane, una delle nostre donne- soldato, con i gradi di tenente, mi accolse nel mio nuovo ufficio per illustrare come funzionavano le comunicazioni. Le chiesi come si chiamava di cognome e rispose: “Romano”. Domandai se era parente di Yossef Romano, uno degli atleti israeliani trucidati dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco. “Sono la figlia”, rispose. Erano ebrei di origine italiana, come suggeriva il nome. Suo padre, un campione di sollevamento pesi, aveva tentato di disarmare i terroristi, era stato uno dei primi a essere ucciso e il suo corpo mutilato fu lasciato sul pavimento dell’appartamento in cui si trovavano gli israeliani, come monito agli altri membri della squadra di non provare a ribellarsi. Ebbene, in quel momento avrei voluto abbracciare la soldatessa, la figlia di Romano, dirle che ero stato io a fare giustizia degli assassini di suo padre. Ma all’epoca il mio ruolo in quella missione era ancora coperto dal segreto di Stato e dunque tacqui».

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