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La Repubblica Rassegna Stampa
21.02.2023 La guerra vista sul campo
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 21 febbraio 2023
Pagina: 28
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «La guerra vista sul campo»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 21/02/2023, a pag. 28, l'analisi dal titolo "La guerra vista sul campo", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

Bernard-Henri Lévy - Concordia
Bernard-Henri Lévy

How will the Ukraine war end? - New Statesman

Un anno di guerra. Un anno di incendi, rovine, chiese e scuole bombardate, crimini impuniti, desolazione, decadenza di corpi e anime, orrore. Un anno anche di resistenza, eroismo, grandezza omerica, di chi fa la guerra senza amarla e di una nuova grande guerra patriottica, un anno in cui semplici uomini e donne sono diventati un popolo in armi spinto dalla sola idea di non accettare l’inaccettabile. Un anno di questo abominio e di questa non accettazione, un anno di questa geenna e di questa potenza di rifiuto e di vita, un anno di febbre e di paura, di rabbia e di passione, un anno da Lucifero che ho vissuto, settimana dopo settimana, spesso giorno dopo giorno, a contatto con i combattenti, sul terreno, nel caos. È difficile da immaginare, un anno. È quasi inconcepibile in questa Europa irenica che pensava di aver chiuso con la Storia, con la tragedia, con il dramma. Eppure è così. 365 giorni di cenere. 365 volte 24 ore di paura, di odi incandescenti, di assassini a sangue freddo, di bambini spaventati, di innocenza perduta per sempre, di donne che vivono nelle cantine e che sono impazzite per questa vita, di corpi distrutti, di anime morenti. E tante ore, e minuti, in cui, come dice il poeta, «qualche volta ho visto quel che l’uomo ha sognato». Guarda. Leggi. È tutto lì. No, non lo è. Mi sbaglio a dire un anno. Perché questa guerra è iniziata molto prima. Per gli ucraini è iniziata quasi dieci anni fa, quando hanno capito che Putin si sarebbe opposto al loro sogno di democrazia e libertà con tutte le sue forze, che non erano poche. E questa guerra, questa guerra di quasi dieci anni, che quasi nessuno ha voluto misurare, questa guerra come una lunga malattia o come una lenta caduta, questa guerra che ha avuto il tempo di vedere i bambini diventare uomini, e gli uomini tornare bambini spaventati, l’ho seguita anch’io. Ero a Maidan, Kiev, quella mattina di febbraio del 2014, quando ho avuto l’onore di rivolgermi alla folla più numerosa e fervente che abbia mai visto in vita mia, e quando sento, a posteriori, che è stato scritto tutto, il peggio e il meglio, i neri disegni dell’Ossesso del Cremlino così come il coraggio invincibile dei resistenti presenti e futuri. L’anno successivo ero nel Donbass, a Kramatorsk, dove cadevano granate Smerch tali da scavare crateri enormi come voragini, cosa di cui nessuno, in ogni caso, nelle cancellerie, sembrava darsi molta pena. Ero di nuovo nel Donbass, in prima linea, in quelle corsie di sangue che chiamano trincee e dove gli uomini, come a Verdun, come alla Caporetto di Malaparte, si seppellivano per non morire. E poi Babyn Jar, terra di sangue se mai ce n’è stata una, dove sono venuto, a nome del presidente della Repubblica francese, e insieme ai presidenti di Germania, Israele, Ucraina, per commemorare – anche questo discorso è riportato nel libro – le 33.167 vittime della Shoah uccise a colpi di mitraglia, donne, bambini e uomini ebrei, sepolti lì, senza tomba. Questo è il senso della guerra ucraina. E questo decennio di una guerra che nessuno, ancora una volta, volev a vedere, io l’ho visto, l’ho vissuto e ne troveremo traccia anche qui. Quindi la domanda è: perché? Sì, perché e come ho potuto impegnarmi così tanto, anima e corpo, in questa guerra che non sembra, a tutta prima, appartenermi. Ho seguito molte guerre in vita mia! Cinquant’anni fa, durante la guerra d’indipendenza del Bangladesh, sono diventato uomo. Più tardi, trent’anni fa, ho vissuto per quattro anni la guerra di Bosnia e l’assedio di Sarajevo. E dal Darfur alla Libia, dalle guerre in Eritrea e Tigray a metà degli anni Ottanta alle guerre dimenticate in Africa nei decenni successivi, dall’Afghanistan di Massoud padre a quello di Massoud figlio, mi rendo conto di aver vissuto un’esistenzaattraversata dal medesimo riflesso. Genocidio? Situazione destinata a degenerare in genocidio? Terrorismo? Fanatismo? Forsennata volontà di potenza, di purezza, di uccidere. Una volontà che, come nella Mogadiscio degli immediati anni Venti di questo secolo, una città che sono stato tra i primi a raggiungere, si disfrena, torno a ripeterlo, a insaputa del resto del mondo? Ogni volta, la stessa rivolta. Lo stesso sentimento d’ingiustizia da riparare. E il medesimo riflesso – sì, all’inizio è sempre un riflesso: andare, testimoniare, cercare di raccontare e di pensare. Questa guerra che nessuno voleva vedere arrivare è stata una sorta di guerra dimenticata – e anche allora! – fino a quel fatidico 24 febbraio 2022, quando la Russia ha deciso di invadere l’Ucraina, di renderla schiava e, se non ci fosse riuscita, di distruggerla. Da quella data, la guerra non è stata più dimenticata, né nei telegiornali né nel gran chiasso di quello che un altro poeta ha sdegnosamente chiamato “reportage universale”. Al bancone del bar ognuno ha la sua opinione, più o meno informata, ma sempre molto netta, sul fatto che Putin sia malato o meno, che Zelensky sia un comico o un martire, che la Russia sia stata “umiliata”, l’Alleanza Atlantica “imprudente”, o che Bakhmut e Zolote abbiano un’importanza strategica tale da giustificare un impiego di uomini così grande e perdite tanto notevoli per espugnarle o difenderle. Lo penso anch’io. Credo che questa sia davvero una guerra come nessun’altra, incomparabile, fuori dal comune. Sento che qui c’è un avvenimento reale, cioè un punto della realtà che sta spezzando in due l’ordine della Storia come si sviluppa giorno dopo giorno. E il problema vero, di fronte a guerre del genere, è sapere come devono reagire, agire, riflettere i liberi cittadini del mondo civile. Resistere al ricatto o cedere? Restare fermi nella difesa delle libertà e della legge, o temere una macchinazione apocalittica che non è escluso sfugga ai suoi apprendisti stregoni per culminare nell’impensabile... Rifiutare il ritorno al mondo del peggio di ciò che il patto del 1945 credeva di avere scongiurato, o rassegnarsi ad esso per paura della grande distruzione, dell’idea ossessiva del collasso, o per puro spiritodi compromesso... Schierarsi, a Parigi come nel Donbass, dalla parte dei patrioti dell’Europa in procinto di restituire un senso più puro alle parole della tribù o a fare la minima concessione a un terrorista, Putin, che, opponendo una democrazia di facciata alla vera democrazia, vuole la sconfitta di questa Europa e dello spirito che ancora la anima. Stare dalla parte di questi curiosi partigiani che rinnovano, al tempo stesso, lo spirito dell’insurrezione di massa e quello dell’eroismo aristocratico, il ricordo di Valmy e la memoria di una grandezza tutta particolare che si credeva scomparsa con le guerre dei profeti, con gli uomini illustri come in Plutarco, o con, nel mio paese, i grandi caratteri corneilliani, resuscitati, tra la stupefazione del mondo, con Zelensky e i suoi – o lasciarsi intimidire dai rulli di tamburo della guerra totale e di una mobilitazione generale che evidentemente tra gli apocalittici, diremmo oggi i totalitari, arruola, come sappiamo dai tempi di Voltaire e del suo Candide, soltanto bruti e diavoli ubriachi. Alla fine la domanda è questa. Queste sono le alternative che ho avuto in mente in ogni tappa del mio viaggio giornalistico, politico e filosofico. E questi sono, nero su bianco, i temi in gioco in questo libro.

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