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La Repubblica Rassegna Stampa
27.11.2022 Iran, le donne e gli ayatollah
Editoriale di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 27 novembre 2022
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Iran, le donne e gli ayatollah»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/11/2022, a pag. 1, con il titolo "Iran, le donne e gli ayatollah" l'analisi del direttore Maurizio Molinari.

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Maurizio Molinari

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A settantadue giorni dall'uccisione a Teheran di Mahsa "Zina" Amini la rivolta delle donne non accenna a diminuire, scuotendo le fondamenta della teocrazia degli ayatollah: per il sociologo Asef Bayat "stiamo assistendo alla nascita di un nuovo Iran". Estesi blackout di Internet, oltre 8.000 arresti di massa in città e province, l'uso massiccio di armi da fuoco, bastoni e percosse, gli assedi ai campus, gli stupri di donne arrestate e almeno 200 vittime non sono riusciti a fermare una rivolta spontanea, fatta di singoli gesti, senza violenza e senza leader riconosciuti, che si nutre solo del coraggio infinito di giovani donne indomite.

Per comprendere cosa intende Bayat quando sottolinea che «ci troviamo davanti ad un movimento nazionale per reclamare il diritto alla vita» di 87 milioni di iraniani — in prevalenza giovani sotto i 25 anni — bisogna analizzare le tre maggiori novità che stanno emergendo dalla cronaca iraniana: il ruolo guida rivoluzionario delle donne; la grande diversità del movimento di protesta; le divisioni interne al regime. La più evidente e determinante novità è che per la prima volta, non solo nella Storia iraniana ma dell’intera umanità, ci troviamo di fronte ad un movimento nazionale innescato dalla rivolta delle donne per il rispetto dei loro diritti. Le donne in Iran erano già state decisive per la vittoria del “riformista” Mohammad Khatami nelle presidenziali del 1997 e nella protesta dell’Onda Verde del 2009 ma ora sta avvenendo ben altro. Si tratta di donne in gran parte giovani e giovanissime, ovvero nate fra il 1997 ed il 2012, appartenenti dunque alla Generazione Z, cresciute in Iran senza avere memoria diretta della rivoluzione khomeinista del 1979 o della lunga guerra Iran-Iraq. Nella loro vita non hanno assistito o subito le asprezze di conflitti sanguinosi, sono vissute in una situazione di sostanziale stabilità, maturando però un grado di educazione superiore alle generazioni precedenti. Se infatti durante gli anni dello Shah il ceto medio preferiva spesso non mandare le figlie all’università, nel timore che i costumi occidentali le allontanassero dalle radici tradizionali, dopo l’avvento della Repubblica Islamica è avvenuto l’esatto opposto ed oggi almeno il 60 per cento degli studenti negli atenei è composto da donne. La disoccupazione femminile invece è il doppio di quella maschile e dopo l’elezione alla presidenza dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi nel 2021 la situazione è peggiorata perché le limitazioni ai danni delle donne sono state rafforzate. Se nel 2018 un’indagine del Parlamento di Teheran attestava che la maggioranza delle donne non gradiva l’obbligo al velo, Raisi ha inasprito proprio tali imposizioni islamiche. Le donne che rivendicano il diritto di non vestire i differenti tipi di veli islamici — dal chador all’hijab — e non accettano più di essere trattate dalla teocrazia sciita come cittadine di serie B sono tante, giovani e colte. E conoscono il mondo, sono a proprio agio con le comunicazioni digitali, come dimostrano i video con cui stanno inondando il web. Fra loro ci sono ragazze che si sciolgono i capelli in gesto di sfida davanti alla polizia “della purezza”, donne anziane che lo fanno sul web per denunciare i killer del figlio e artiste popolari come Fatemeh Motamed-Arya che togliendosi l’hijab ha pronunciato la frase-shock: «Nel mio Paese non sono una donna». La seconda novità di rilievo è che le donne non sono le sole a far parte di questo movimento perché le informazioni che ogni giorno ci raggiungono dall’Iran mostrano almeno altre tre grandi categorie al loro fianco: gli studenti uomini, della stessa Generazione Z; gli insegnanti, impegnati a battersi per i diritti dei loro alunni di ogni sesso e grado in una molteplicità di scuole ed atenei; i gruppi etnici, dai curdi nel Nord — a cui apparteneva la 22enne Mahsa “Zina” Amini — ai Beluci nel Sud, che da tempo mostrano di essere i più insofferenti alla repressione guidata da Teheran sui territori dove i persianisciiti sono meno presenti. E ancora, ad estendere la protesta c’è il fatto che include una moltitudine di istanze di disagio sociale: dai contadini colpiti dalla siccità ai pensionati che chiedono più benefici, dai giovani che lamentano carenza di occupazione a quelle donne, in età adulta, che rimproverano agli ayatollah di aver inaridito l’offerta culturale in una nazione culla di un’antica civiltà dove teatri, concerti, musiche, film ed altre manifestazioni artistiche sono soggette alla più asfissiante delle censure in nome dell’ostilità verso le “culture nemiche”. È proprio la diversità del movimento di protesta a far comprendere la genesi del motto “Donne, vita, libertà” divenuto una sorta di grido di battaglia dalle strade di Shiraz alle piazze europee, fino agli spalti degli stadi di Doha. La sovrapposizione fra la rivolta senza precedenti delle donne e la diversità del movimento di protesta che la sostiene spiega perché la Repubblica Islamica si trova ad affrontare una sfida assai più pericolosa dell’Onda verde che nel 2009-2010 fu innescata dalla contestata rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad, come anche delle più limitate sollevazioni avvenute nel 2017 e 2019 soprattutto per motivi di tipo economico. È in tale cornice che si pone l’interrogativo su cosa sta avvenendo dentro il regime di Teheran perché se da un lato il Leader Supremo della Rivoluzione, Ali Khamenei, ha ordinato senza battere ciglio la repressione totale e il presidente Ebrahim Raisi la sta coordinando, dall’altro è evidente che le forze di sicurezza esitano ad adoperare tutti gli strumenti a disposizione contro i civili. Perché dare la caccia ad ogni testa senza hijabin una nazione di 1,7 milioni di kmq è un’opera ardua anche per il più brutale apparato di sicurezza. Forse non a caso Gholam Mohseni-Ejei, onnipotente capo del potere giudiziario, ha cambiato almeno quattro volte interpretazione e linguaggio sulla rivolta delle donne, rendendo evidente la presenza di posizioni contrastanti nel regime. Tali tentennamenti possono avere più spiegazioni: dalla presenza di almeno 60 mila coscritti anche dentro i ranghi delle Guardie della rivoluzione — il corpo dei fedelissimipasdaran, da cui dipendono stabilità e proventi della teocrazia — al fatto che Khamenei ha 83 anni, è molto malato dal 2014 ed è circondato da un sentimento generale di fine-regime che ha tenuto lontano dalle urne delle ultime presidenziali circa metà della popolazione. Il regime ha il problema reale di come rinnovare e far accettare ai giovani la “legittimità” della rivoluzione khomeinista, che risale oramai a 43 anni fa. Da qui l’ipotesi che fra gli ayatollah sia in atto un confronto fra chi vuole usare il massimo della forza militare per schiacciare nel sangue la rivolta delle donne e chi invece forse si rende conto che sarebbe piuttosto preferibile riconoscere alle donne il diritto di non indossare il velo — la cui origine è nei costumi tradizionali delle tribù beduine della Penisola arabica — per poter tornare a garantire alla teocrazia un minimo di stabilità. Quale che sarà la scelta della Repubblica Islamica, è facile dedurre che attraversa il maggior momento di vulnerabilità dalla sua nascita. Forse anche per questo i portavoce di Teheran provano ad imputare alle “infiltrazioni di nemici occidentali” la sollevazione dei diritti mentre ipasdaranimpiegano ogni strumento nella repressione: dalle immagini raccolte dai propri droni ai “consigli” forniti dell’intelligence russa. Nel vano, disperato, tentativo di obbligare le coraggiose donne iraniane a tornare ad indossare il velo dell’oppressione.

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