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La Repubblica Rassegna Stampa
12.08.2022 David H. Petraeus: 'Il ritiro Usa da Kabul ha riconsegnato il Paese alla Jihad'
Intervista di Anna Lombardi

Testata: La Repubblica
Data: 12 agosto 2022
Pagina: 15
Autore: Anna Lombardi
Titolo: «Petraeus: 'Il ritiro Usa da Kabul ha riconsegnato il Paese alla Jihad'»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 12/08/2022, a pag.15 con il titolo "Petraeus: 'Il ritiro Usa da Kabul ha riconsegnato il Paese alla Jihad' ", l'intervista di Anna Lombardi.

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Anna Lombardi

File:US Army 51544 Army Gen. David H. Petraeus.jpg - Wikimedia Commons
David H. Petraeus

«Quando fu annunciato il ritiro da Kabul, lo dissi subito: ce ne saremmo pentiti. L’uscita fu catastrofica: le conseguenze peggiori. E ora tanti si rammaricano di quella scelta, sapendo che c’erano altre opzioni possibili». A un anno dal ritiro delle truppe americane che il 15 agosto 2021 portò alla riconquista di Kabul da parte dei talebani, il generale David H. Petraeus, 69 anni, fa una lunga lista dei mali che oggi tormentano quel Paese. Già a capo dello United States Central Command, ha guidato le forze americane in Afghanistan e in Iraq. Fra 2011 e 2012 è stato direttore della Cia e oggi presiede la Kkr Global Institute, società che fornisce analisi di rischio geopolitco a investitori di fondi economici.

Quali sono state le conseguenze del ritiro dall’Afghanistan? «Al Qaeda è stata accolta dai talebani, come dimostra l’uccisione a Kabul di al Zawahiri. Allo stesso tempo, gli affiliati dello Stato Islamico fomentano una pericolosa guerra settaria. L’economia è crollata. Il nuovo governo applicaun’interpretazione ultraconservatrice dell’Islam proibendo alle donne di lavorare, frequentare scuole e università. La situazione del popolo è disperata. Chi sperava che il nuovo regime talebano sarebbe stato diverso rispetto a 20 anni prima è stato deluso».

Quali alternative c’erano? «Personalmente auspicavo il mantenimento di circa 3.500 uomini e donne in divisa col compito di svolgere missioni di consulenza, assistenza e addestramento delle forze di sicurezza afghane: insieme ai 17mila contractor addetti alla manutenzione dei sistemi tecnologici, necessari al funzionamento della Difesa aerea afghana. Un livello modesto di impegno, assolutamente sostenibile. Capisco che continuare una missione che non avrebbe mai condotto alla vittoria, coi talebani protetti dal Pakistan, era frustrante. Ma lasciare un piccolo numero di militari avrebbe convinto le altre forze di Coalizione a fare lo stesso. Insieme ai contractor».

Ne sarebbe valsa la pena? «Afghani e Occidente pagheranno a lungo le conseguenze del ritiro. Certo, il governo di Ashraf Ghani era disfunzionale e corrotto. Ma ci aiutava a tenere a freno gli estremisti e garantiva al popolo libertà oggi perse. Era preferibile a quel che lo ha sostituito: e poteva essere migliorato col tempo».

C’è il rischio che Al Qaeda o un’altra organizzazione si radichi al punto da costituire un nuovo pericolo per l’Occidente? «Sì. Al Qaeda oppure il rivale Isis useranno l’Afghanistan per riorganizzarsi. E un giorno potrebbero tornare a minacciare iterritori circostanti, come quando lo Stato Islamico stabilì il suo califfato in Iraq e Siria. All’epoca, solo l’aiuto della coalizione a guida americana consentì alle forze irachene e siriane di sradicarli. Detto questo, una simile minaccia non si realizzerà a breve. Monitoriamo la situazione e l’eliminazione di Al Zawahiri dimostra che siamo in grado di agirequando necessario: pure se la mancanza di basi in Afghanistan rende tutto più difficile».

Un anno fa si disse che gli americani avevano tradito la fiducia degli alleati. Il sostegno all’Ucraina ha emendato gli errori di allora? «Definirei l’uscita dell’Afghanistan un’anomalia. Oggi gli Stati Uniti guidano la risposta globale all’invasione russa dell’Ucraina, lavorando duramente in sostegno dell’unità della Nato e del mondo occidentale. Garantiamo assistenza militare, finanziaria, umanitaria d’ogni tipo. Il lavoro per colpire con le sanzioni la Russia e la cerchia di Putin è stato straordinario».

Come legge ciò che è appena successo a Taiwan e la rinnovata attenzione americana verso l’area indo-pacifica? «Stiamo rispondendo efficacemente e in tutto il mondo a sfide complesse. Incluso, certo, il perseguimento del “riequilibrio dell’Asia”, caratteristica delle ultime tre amministrazioni».

Qual è la lezione dell’Afghanistan da applicare in futuro? «Quando si interviene, l’impegno deve poi essere costante. Purtroppo spostammo l’attenzione sull’Iraq subito dopo la caduta del regime talebano. E poi, concludendo che non avremmo vinto, abbiamo dimenticato che anche semplicemente aiutare gli afghani a resistere era alternativa migliore del ritiro. Oggi dobbiamo cercare un modo di aiutare gli afghani, alla fame, senza arricchire il regime talebano. Mentre altrove nel mondo dobbiamo far pressione sugli estremisti, come d’altronde stiamo già facendo».

Come immagina la leadership americana del futuro? «Fondata su valori di principio, pragmatica e ferma. Sempre concertata coi nostri alleati e partner. Come d’altronde, stiamo già facendo».

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