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La Repubblica Rassegna Stampa
25.04.2022 Nel bunker di Kiev con i bambini
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 25 aprile 2022
Pagina: 10
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Nei bunker di Kiev i bambini come 'La vita è bella'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/04/2022, a pag. 10, con il titolo "Nei bunker di Kiev i bambini come 'La vita è bella' ", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

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Un parco giochi tra le macerie a Kiev


È su un treno da Leopoli che si arriva a Kiev. Su lunghi treni blu, confortevoli, abbastanza veloci, che prima della guerra avevano fama di partire puntuali. Adesso però non c’è nessuno che non abbia negli occhi il bombardamento che il 9 aprile scorso colpì la stazione di Kramatorsk, causando almeno 52 morti. La gente, adesso, fa molta attenzione, evita di assieparsi, accelera il passo se il binario è illuminato. E quando il treno inizia a muoversi tutte le luci rimangono spente; le tendine, in ogni scompartimento, abbassate, e durante la notte si susseguono le soste in aperta campagna e le deviazioni, che fanno accumulare ritardi. Presto si smette di pensarci. Nel vagone ci sono volontari che hanno portato al sicuro le loro famiglie e ora tornano a combattere. Un soldato sonnecchia e tiene il kalashnikov, privo del caricatore, stretto al petto come un neonato.

Un inglese si è appena unito alla Brigata internazionale creata da Zelensky. Alcune persone fanno il viaggio contrario, rispetto ai rifugiati: hanno deciso, tra timore e tremore, di tornare nella propria città, nel proprio paesino. Cosa sarà rimasto della mia casa? Avranno distrutto quel soffitto di maiolica gialla e blu che da tre generazioni sopravviveva a qualsiasi catastrofe? E le stoviglie di porcellana che ho dovuto abbandonare per fuggire? E cosa ne sarà stato di mia suocera, di cui non ho notizie dal giorno dell’invasione? Ecco di cosa si parla a bordo del treno diretto Leopoli-Kiev che attraversa, come in un sogno, l’Ucraina aggredita. Ecco, soprattutto, cosa si riesce a comprendere quando si ha la fortuna di essere accompagnati da un buon interprete: lui è Sergei O., perfettamente francofono, appassionato di Albert Camus e di Michel Houellebecq; somiglia vagamente al James Cagney de La furia umana e dice che dopo aver fatto, nella sua prima vita, «tutte le cazzate possibili e immaginabili» ora ha deciso di consacrarsi alla difesa del proprio Paese. A Kiev, sorpresa. I russi avevano tolto l’assedio, almeno temporalmente; speravo in un clima se non proprio festoso almeno di liberazione. E invece no. Strade vuote. Negozi e chiese, chiusi. Il Maidan che avevo conosciuto nel 2014 — insieme a Gilles Hertzog e a Marc Roussel — , quel brulichio vibrante nella sua rivoluzione democratica in corso d’opera, è deserto, pieno solo di barricate disposte a zig-zag e di sistemi anti-carro. E ovunque regna un identico, terribile silenzio, come sui pianeti morti, coperti da coltri di ghiaccio, simili a sfere d’acciaio, come quelle che popolano i romanzi di Philip K. Dick. «Normale», dice Vitali Klitschko, un tempo pugile e ora sindaco, anzi, a capo della guerra della città.

Ci riceve in tuta mimetica, all’ombra di una basilica. «No, non è apparenza» insiste, con uno strano sguardo indurito che non è più quello del gigante buono, del supercampione di un tempo, s’impegnava a trattenere i propri colpi; dell’uomo bonario, amante di Dostoevsky, che nel 2014 avevamo conosciuto come leader del proprio partito e poi accompagnato a Parigi per un incontro con il Presidente Hollande. «I russi si sono ritirati, è vero. Li abbiamo sconfitti e, di conseguenza, hanno deciso di tornare a dispiegarsi nel Donbass e nelle città del sud, perché la loro resistenza li fa andare completamente fuori dai gangheri. Ma possono tornare. E sulla frontiera bielorussa dispongono di mezzi bellici in grado di colpirci in qualsiasi momento». Proprio in quell’instante mugghia l’allarme di una sirena. Lui si mette subito all’ascolto, scruta il cielo da esperto. «No, non è ancora per noi» sentenzia facendo una smorfia. E aggiunge, in tono d’accusa: «Al vostro ritorno, dite senza mezzi termini che ogni missile che lanciano sulla mia città è sponsorizzato dal gas che voi acquistate da loro». Accenna un sorriso vittorioso ma venato di dispiacere. L’uomo bonario riaffiora e s’immerge all’interno di un autoblindo.

A Bucha, come a Irpin, si è fatta pulizia dei cadaveri lasciati lungo le vie dai russi, ma i racconti dei sopravvissuti gelano il sangue quanto le immagini che tutti abbiamo visto. Una signora anziana a cui hanno ucciso la figlia sotto gli occhi, ci dice che è morta come un animale, raggomitolata, al termine della notte, nell’ultima stanza rimasta in piedi della loro casa. Un’altra donna ricorda il volto grasso, la bocca serrata e piena d’odio del ragazzo che la teneva ferma afferrandole le spalle, mentre gli altri la torturavano; dice che non dimenticherà mai l’odore di quel sudore come zuppa rancida e dell’alcol scadente che l’uomo tracannava tra una bestemmia e l’altra; e nemmeno le parole che osarono scrivere, quando finalmente se ne andarono, sul muro di una casa: «From Russian with love». Ancora una testimonianza: i russi avevano installato nel minuscolo spazio verde di un vicino gli affusti dei loro cannoni; quando gli ucraini hanno contrattaccato, i russi hanno sospettato che il proprietario del giardinetto avesse trasmesso via GPS la loro posizione, e l’hanno giustiziato con uno sparo alla nuca. E un’altra ancora: i genitori di un figlio che aveva sul cellulare delle foto di carri armati distrutti. Gli hanno fatto saltare le cervella e, come per continuare a punirlo, hanno lasciato che il suo cadavere imputridisse per tre giorni; nel frattempo ci si pulivano sopra gli stivali. E ancora un’altra, di una donna che ha scoperto il corpo del marito gettato in un garage: l’ha appena sepolto quando la incontriamo, e non vuole raccontare oltre, si chiude nelle lacrime e nel silenzio. Di corpi massacrati e oltraggiati; dei sedici bambini uccisi, di cui ci parla il sindaco; dei sopravvissuti che per giorni sono stati costretti a sciaguattare nel sangue dei loro morti: queste sono le storie che abbiamo ascoltato a Bucha. Trascorriamo la notte a Ukrainka, una città dell’Oblast di Kiev, in una delle poche case rimaste in piedi in quella terra un tempo fatta di stagni, roseti e foreste di pini, e che ora sembra una sfilata di devastazioni. Siamo ospiti di pescatori, mi comunica Sergei. Bene, se non fosse perché questa costruzione in legno mi sembra un po’ troppo grande e moderna per essere una casa di pescatori. Non si può aprire una porta senza imbattersi in caschi, pile di giubbotti antiproiettile, carte militari, notebooks e fucili d’assalto. E se in effetti il Dniepr sullo sfondo notturno c’è, non si vedono né barche né reti da pesca. Anzi, con le loro spalle erculee, i capelli scarmigliati, le tute mimetiche, gli stivaloni inzaccherati, bagnati fradici, slacciati, gli sguardi improvvisamente vendicativi quando la discussione tocca il tema dei Buriati della Siberia, gli uomini che ci ospitano hanno tutta l’aria di essere dei duri, o dei commandos, anziché marinai di acqua dolce. Ceniamo anguilla affumicata, carpa e della carne fin troppo bollita. Mandiamo giù d’un fiato diversi bicchierini di horilka, l’acquavite di Taras Bulba, alla salute dell’Ucraina e dei suoi eroi. Le lingue allora si sciolgono e Alexis, il capo, ci informa che siamo vicinissimi a Tripillia, la culla di una civiltà ucraina millenaria la cui esistenza gli storiografi revisionisti russi si ostinano a negare in ogni modo. E anche se non c’è verso di strappargli informazione alcuna sul passato dei suoi uomini, finisce comunque per dirci che il loro vero mestiere è «far regnare la giustizia umana», nella zona di Bucha, per esempio. Si è fatto tardi. Noi andiamo a dormire. Loro escono, armati fino ai denti, nella notte: «far regnare la giustizia».

Penso a Sarajevo, dove i primi resistenti si chiamavano Caco, Celo, Yuka ed erano al contempo dei mascalzoni e dei prodi. Anche il monastero di Neskeriv è in un luogo completamente isolato, alla fine di un cammino pianeggiante, grigioverde sotto il cielo azzurro, risparmiato dai bombardamenti, 60 chilometri a sud di Kiev. In questo scenario bucolico, dove un corso d’acqua stranamente silenzioso forma un gomito, c’è una cappella dagli stucchi dorati, con angeli, santi, immagini edificanti e variopinte cupole a cipolla, dedicata al profeta Giona. La abitano ventisei monaci con il loro saio nero, la barba magra, lo sguardo di fuoco e il volto da lupi; pregano ventiquattr’ore su ventiquattro, a turno, in coro con la quarantina di rifugiati del Donbass a cui danno ospitalità fin dal primo giorno di guerra. A un certo punto Sergei mi sussurra all’orecchio: «Ho un problema da risolvere. Ci metto cinque minuti». Siccome un’ora dopo non è ancora tornato, esco anch’io e lo trovo in conversazione con un gruppo di uomini armati, venuti in un 4x4 e visibilmente irritati. Avevano saputo che eravamo lì. Ma, soprattutto, vengo a sapere che il monastero, sebbene sia contro Putin, dipende dal Patriarca di Mosca e quindi agli occhi dei patrioti della Difesa del territorio della zona è un luogo sospetto. Sergei, senza mai scomporsi, mostra loro il cellulare, con una nostra foto insieme al presidente Zelensky. Problema risolto, e noi ce la caviamo con una filippica del capogruppo sulla guerra dei campanili, che oppone i monasteri ancora fedeli al patriarcato di Mosca e quelli che invece hanno aderito all’accordo di indipendenza offerto nel 2018 dal patriarcato di Costantinopoli. L’abate Ioasaf, che da giovane fu campione di atletismo, non ha ancora compiuto quel salto. Per il momento prega per la pace, per la gloria dell’Ucraina e per i sessanta gatti anch’essi rifugiati nel monastero. Della catacomba che sto per descrivere, invece, non fornirò alcuna coordinata. Siamo sempre a sud di Kiev, ma quattro metri sotto terra, in un bunker costruito con pile di mattoni cementati e con letti da dormitorio, dove una dozzina di bambini da oltre cinque settimane trascorre la maggior parte delle notti e, a volte, dei giorni. Tra loro c’è un’adolescente arrivata da Kharkiv: ha perduto tutto e capito tutto. Un’altra, il viso di un angelo che sorride apertamente e le guance carminio, ha perso la mamma a Bucha, falciata da una granata mentre rientrava dalla spesa. Un fratello e una sorella, più piccoli, che con il Lego giocano alla guerra e all’assedio di Mariupol.

Ma ci sono altri bambini, più piccoli ancora, che non sanno perché sono lì, stesi su materassi messi insieme alla meno peggio, simili a uccellini in una fredda gabbia, e pensano a nuovi giochi con cui vincere la noia. Così, quando suona un allarme, gli abitanti del paese, che fanno a turno per vegliare su di loro e nutrirli, dicono che è il camion dei pompieri. Quando da lontano echeggia un’esplosione spiegano che è un tuono. E quando i più grandicelli mostrano sui cellulari immagini di missili che striano il cielo notturno, si tratta di fuochi d’artificio. Io non so se il presidente Zelensky abbia ragione quando definisce «genocidio» la distruzione dell’Ucraina decisa da Putin e dai suoi sgherri, ma di quel che son sicuro è di aver trascorso una serata tra ragazzini simili al piccolo Giosuè de La vita è bella di Roberto Benigni, a cui il papà faceva credere che la vita nel campo di concentramento non era altro che un grande allestimento scenico. Chi andrebbe «denazificato»? I nazionalisti ucraini? Davvero? O piuttosto i carnefici di questi bambini dalla nuca scarna, gli occhi cerchiati e la vita spezzata? La Storia rischia di essere ingrata nei confronti di Petro Poroshenko. Bisogna ammettere che non sia stato fortunato: ha tenuto testa a Putin per cinque anni; l’ha obbligato a negoziare a Minsk e, nello stessa serie di azioni, è anche riuscito a mettere insieme l’esercito della nuova Ucraina, ma poi ha dovuto misurarsi con un successore come Zelensky, un giovane uomo stupefacente, che all’inizio della propria carriera era un comico e poi ha dimostrato un tale coraggio, un tale eroismo, una tale intelligenza strategica e politica da ritrovarsi nei panni di un Churchill ucraino. Poroshenko però è un giocatore esperto e siamo andati a incontrarlo di nuovo.

Appuntamento in via L., dietro una basilica del centro storico di Kiev; lui, alla guida del battaglione di cui è capo (e specifico «capo» perché la legge in Ucraina vieta ormai a un oligarca di comandare un’unità da combattimento, nonostante si tratti di un ex Presidente del Paese). Partiamo subito, perlustriamo tutto il giorno la zona nord, più in là di Bucha, in direzione della frontiera bielorussa, dove interi paesi sono stati spazzati via dall’esercito russo che si ritirava (dall’esercito russo, sottolineo: non dalle milizie cecene; non dai mercenari siriani). E devo dire di non aver colto una sola parola meschina dell’ex Presidente nei riguardi del suo glorioso successore. Mai, nel corso di quella lunga giornata in cui gli è capitato di imbattersi nei partigiani, felici di saperlo in quelle zone, accanto a loro, nei loro stessi carnai, davvero mai l’ho visto venir meno al patto patriottico stretto fin dal primo giorno di guerra con Volodymyr Zelensky. È bello anche questo. Anche questa unità nazionale rende onore all’Ucraina. Quando i grandi s’innalzano fino a raggiungere la vetta degli umili; quando la fermezza d’animo e di carattere è la stessa tra chi è in testa e i sanculotti, ecco la prova di un popolo che si sta sollevando e che, qualsiasi prova debba ancora affrontare, è destinato alla vittoria. Di Bucha si è parlato ovunque. Di Borodyanka si è parlato meno. Le testimonianze, in questa città, appena trenta chilometri a nord di Bucha, con due ponti distrutti e una strada disseminata di macerie e miserie che gli abitanti chiamano la via della morte, causano un orrore simile a quello di Bucha. C’è un edificio spaccato a metà da un missile. Ce n’è un altro ridotto a un cumulo di calcinacci, dove dei soccorritori col gilet giallo stanno ancora scavando tra le macerie, la mattina in cui arriviamo: sotto c’è il corpo inerte di un bambino, che dal giorno prima ha smesso di dare cenni di vita. C’è un appartamento requisito dalla soldataglia al suo arrivo; alla partenza non hanno voluto lasciare nulla di vivo, e quindi hanno lanciato una granata d’addio. La cantina da dove gli abitanti li sentivano abbuffarsi, cantare, imprecare, suonare la fisarmonica, saccheggiare, violentare, fare bisboccia e alla fine gettare l’ennesima granata, perché «gli ucraini sono dei sorci» e bisogna disinfestare come si fa con i sorci. Le spoglie di un essere umano decapitato, coperte da un lembo di plastica nera. Un asilo improvvisato, dove i figli degli scomparsi dormono ammucchiati gli uni sugli altri perché battono i denti per la paura e il freddo, e dicono che nel sonno ancora sentono le grida dei soldati ubriachi che sparano in aria, di notte. Il rauco latrare dei cani che cercano i loro padroni. Dei bracieri accesi, come a Maidan, dove la gente viene a prendere la zuppa calda cucinata dalle organizzazioni umanitarie. Dappertutto, odore di rifiuti, di benzina e di stracci bruciati. E poi, nel centro della piazza principale, la statua in bronzo del grande scrittore Taras Shevshenko, voce della coscienza ucraina: gli hanno sparato un razzo alla nuca, la testa si è mezzo staccata dal busto, si è inclinata e sta quasi per cadere, ma resiste, si regge, continua a incarnare la forza dello spirito, dirimpetto agli edifici calcinati.

Se esistesse una classifica del peggio, c’è un altro luogo ancora a cui spetterebbe il primo posto. Al ritorno, la strada per Kiev era intrisa di una pioggia diventata ormai diluvio e siamo stati costretti a una deviazione verso sud-ovest; per un’ora abbiamo girato senza ben sapere dove eravamo e a fine pomeriggio siamo capitati ad Andrivka. Non è una cittadina, è un villaggio. Non rappresentava alcun obiettivo, non dico militare, ma neppure economico. E nemmeno i suoi dintorni. Una povera frazione, insomma, priva di importanza collettiva o specifica, che quasi non compariva sulle mappe, dimenticata dagli dèi e dagli uomini. Dai racconti degli abitanti pare sia successo questo: una colonna russa passa di lì. Ne fa il proprio quartier generale, in tutta comodità. Poi rimane senza direttive per parecchi giorni e capisce che le cose per il Cremlino si stanno mettendo male e che alle unità sta per essere impartito l’ordine di tornare sul fronte del Donbass. Allora, come accade a qualsiasi esercito sconfitto e vigliacco, una sezione si scatena. Passare a fil di spada. Darci dentro. Giustiziare a bruciapelo. Depredare i morti. Rovistare tra le macerie. Bisogna massacrarli, quei bastardi, bisogna fargliela pagare. Di quel momento di castigo collettivo rimangono il numero di matricola perso da un soldato, qualche razione di rancio abbandonata, lo scambio di un paio di stivali, per portarsi via i più caldi, che appartenevano a un ucraino ucciso. Non si deve certo paragonare ciò che non ha confronto, ma un simile accanimento per aver perso la guerra battendosi lealmente; la follia di cui si è impadronita questa unità che, prima di partire per il nuovo fronte, si vendica con gli ostaggi che le capitano sotto mano, a un francese ricorda qualcosa: ricorda la divisione Das Reich quando fu richiamata sul fronte di Normandia: prima di mettersi in marcia si vendicò sulla popolazione di Oradour-sur-Glane. L’ora del coprifuoco arriva presto. Kiev si trasforma in una città morta. Non una persona per strada, né una sola auto. A ogni angolo, un check-point, dove giovani dal grilletto facile sanno che quello è il momento in cui s’infiltrano i doppi agenti. Noi, per fortuna, ritroviamo i nostri pescatori. Loro conoscono la parola d’ordine e riescono a portarci — prima di arrivare alla stazione, al treno per Leopoli e poi per la Polonia — su quel Maidan dove tutto ebbe inizio e dove avevamo l’ultimo appuntamento di quel viaggio, ai piedi della colonna dell’arcangelo Michele: ci attendeva Tatiana Kucher, ex sindaca di Ukrainka e direttrice di una poderosa ONG che sostiene le persone sfollate; con lei, il figlio di un sopravvissuto di Babi Yar che ci rammenta, mentre in Francia sono in corso le elezioni, che qui l’estrema destra ha dieci volte meno voce in capitolo che a Parigi. Infine, quando ormai siamo sul punto di salire definitivamente in macchina, ecco che nel buio della piazza spunta dal nulla, come un fantasma, un’autentica revenant: la testa scoperta, un cappotto nero lungo fino ai piedi, la treccia sempre biondissima, scortata solamente da una guardia del corpo che le regge l’ombrello, appare l’egeria della Rivoluzione arancione, Julija Tymoshenko.

È apparsa per pura coincidenza ? O è stato l’amico Sergei a forzare la mano al caso? Insieme ricordiamo il nostro primo colloquio, otto anni fa, all’indomani della sua liberazione dal carcere di Karkiv dove l’aveva rinchiusa il giannizzero ucraino di Putin. E poi l’ultimo, cinque anni dopo, la sera del mio primo incontro con chi l’avrebbe completamente eclissata e che sta mostrando al mondo i colori dell’Ucraina libera: Volodymyr Zelensky. Inizio e fine della storia. Il tempo accelera, quando la guerra segue alla rivoluzione, fa rotolare teste e cambia il vento della Fortuna. Il destino dei singoli, passa. Permangono invece i grandi popoli. E permane la forza di un’Europa il cui teatro più tragico, più crudele e più nobile sto per lasciare. Slava Ukraini!
Traduzione di Monica Rita Bedana

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