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Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/02/2022, a pag. 1, con il titolo "Le democrazie unite contro Putin", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari L’ invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Vladimir Putin ha aperto una crisi militare nel cuore dell’Europa ed a 72 ore dal suo inizio è già possibile identificare le tre chiare novità che ha fatto emergere, con conseguenze al momento imprevedibili: la capacità di combattere delle forze di Kiev, il ritorno alla Guerra Fredda con le democrazie europee schierate con gli aggrediti e l’isolamento del Cremlino. Anzitutto, l’esercito ucraino si batte, non si è sciolto come neve al sole al pari di quanto avvenne con i militari afghani lo scorso agosto. Se Putin aveva immaginato di prendere Kiev con una guerra lampo ripetendo l’ exploit dei talebani a Kabul si è dovuto ricredere per il semplice motivo che la differenza sta nella legittimità democratica del governo.
Ashraf Ghani non ne aveva perché era il simbolo di un potere corrotto, e dunque i soldati non volevano morire per lui, mentre Volodymyr Zelensky nel 2019 è stato eletto con il 73 per cento dei voti ed un programma di unità nazionale fra maggioranza ucraina e minoranza russa che risponde alla volontà politica del Paese. Dunque i soldati combattono per il governo in carica e i civili corrono ad arruolarsi volontari. Senza contare che la nazione afghana è un azzardo geografico-tribale di fine Ottocento mentre quella ucraina è antica e radicata almeno quanto quella russa. L’errore di Putin di sottovalutare la capacità di resistenza di una democrazia europea conferma quale è il tallone d’Achille di ogni autocrate, despota o condottiero illiberale. Ciò significa che le forze d’invasione russe — la cui superiorità sugli ucraini è soverchiante sotto ogni punto di vista — per prevalere sul terreno dovranno usare più risorse, assumersi più rischi, subire più perdite e soprattutto avranno bisogno di più tempo obbligando Putin a fronteggiare un isolamento politico-economico destinato a crescere di estensione e intensità. Insomma, Mosca puntava a ridurre l’Ucraina ad un Paese vassallo con una campagna fulminea destinata a concludersi a Kiev con il processo-spettacolo ai leader “neonazisti e drogati” mentre ora deve fronteggiare una resistenza inattesa, e gestire una escalation bellica assai più pericolosa. Anche perché Zelensky — classe 1978 — è assai abile nell’uso dei social. Senza contare che i missili a spalla anticarro con cui gli ucraini aggrediscono le code dei lunghi convogli russi ricordano la tattica degli stinger antiaerei che bersagliavano gli elicotteri dell’Armata Rossa sui cieli dell’Afghanistan negli anni Ottanta: oggi come allora il risultato è ostacolare il flusso di rifornimenti e rinforzi vitale alle truppe di Mosca. In attesa di sapere come il generale Valery Gerasimov, capo dello Stato Maggiore russo e formidabile teorico del conflitto ibrido, supererà questi ostacoli operativi tipici di una guerra assai tradizionale del Novecento, possono esserci pochi dubbi sul fatto che Stati Uniti e Paesi europei — Italia inclusa — stanno rifornendo Kiev di armi e munizioni puntando a favorire all’interno dell’Ucraina occupata la creazione di una resistenza armata permanente. A prescindere dalla sorte personale del presidente Zelensky. La scelta di fornire armi all’Ucraina nasce dalla amara consapevolezza, non solo nei leader ma anche nelle opinioni pubbliche in Europa e Stati Uniti, che l’aggressione di Putin ha aperto la Guerra Fredda versione 2.0, chiudendo ciò che restava della stagione della globalizzazione. Se finora le fibrillazioni fra Stati Uniti e Russia/Cina avevano fatto temere il ritorno alla stagione della contrapposizione fra superpotenze, adesso il ricorso alla forza militare da parte di Putin toglie ogni dubbio in proposito. Aggredendo senza motivo uno Stato sovrano con il dichiarato intento di cambiarvi regime, Putin ha iniziato una “guerra per scelta” violando la Carta dell’Onu ed ogni norma del vigente diritto internazionale: facendo così risorgere nel cuore dell’Europa una Cortina di Ferro che, oggi lungo il confine delle aree geografiche controllate dai russi come fino al 1989 nel cuore della Germania, separa gli opposti fronti su democrazia e libertà individuali.
Vladimir Putin |