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La Repubblica Rassegna Stampa
20.08.2021 Afghanistan: chi deve ancora essere evacuato dal Paese
Analisi di Federico Rampini

Testata: La Repubblica
Data: 20 agosto 2021
Pagina: 27
Autore: Federico Rampini
Titolo: «Biden, il rischio del peggio»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 20/08/2021, a pag.27, con il titolo "Biden, il rischio del peggio", il commento di Federico Rampini.

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Federico Rampini

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Joe Biden

Il peggio può ancora venire. Per gli afghani naturalmente, ma anche per Joe Biden. Restano circa diecimila civili americani da portare in salvo; più una stima di ottantamila afghani con doppia cittadinanza o Green Card o un visto. Il Pentagono punta a evacuarne tra cinque e novemila al giorno. Biden ora ammette che i suoi soldati forse dovranno prolungare la missione oltre agosto. Ma i marines all’aeroporto di Kabul garantiscono solo la sicurezza di quello scalo. Molti cittadini americani, o bi-nazionali, o afghani con visto, devono prima attraversare un territorio controllato dai talebani. Può darsi che i talebani rispettino le promesse fatte dai loro capi politici. Non si può escludere qualche colpo di mano: milizie sul terreno più estremiste dei leader, o gang assetate di riscatto, potrebbero aggredire chi sta fuggendo, magari catturare ostaggi. Un passaporto americano o un visto valgono a seconda di chi tiene i posti di blocco col kalashnikov spianato; gli afghani “collaborazionisti” sono esposti a rappresaglie anche se hanno doppia cittadinanza. Se qualche americano sarà ucciso o fatto prigioniero, la crisi afghana farà un salto di gravità. Catturerà l’attenzione dell’opinione pubblica molto più di quanto abbia fatto finora.

Lo scenario “Teheran 1979” diventerebbe un incubo per Biden, esposto alla caduta di popolarità che colpì Jimmy Carter durante la detenzione degli ostaggi americani in Iran. Qualora non si arrivi a uno scenario così estremo, comunque Biden deve scegliere quanti richiedenti asilo accogliere negli Stati Uniti. Ha già un’emergenza migranti al confine con il Messico. La destra lo incalza, anche perché le restrizioni sanitarie che impediscono a tanti altri di viaggiare negli Usa non fermano chi entra illegalmente. Perfino nel partito democratico, sono minoritarie le posizioni della sinistra “no border” (Alexandria Ocasio-Cortez), del genere “apriamo le frontiere a tutti i disperati della terra”. Se l’afflusso di afghani diventasse massiccio, da problema di politica estera diventerebbe un dossier domestico. Biden è sceso per la prima volta sotto il 50% dei consensi ma l’Afghanistan non c’entra nulla. Il calo era antecedente la caduta di Kabul e tutto legato a problemi interni: il rallentamento delle riforme, le polemiche sulle nuove misure anti-pandemia, le divisioni interne al partito democratico. Perciò il presidente continua a “parlare d’altro”, prevalentemente. In questi giorni l’Afghanistan occupa solo una parte della sua agenda, la comunicazione della Casa Bianca si concentra su altre cose: la terza dose di vaccini; le misure a favore dei più poveri (blocco degli sfratti, aumento dei buoni-pasto); la forte ripresa del mercato del lavoro.

La scommessa del presidente non è del tutto azzardata. Negli ultimi giorni si è confermata una frattura tra le élite globaliste e la società americana. I commenti degli esperti e dei media non colgono quanto il popolo americano sia stanco di guerre, disilluso sul proprio ruolo mondiale. Sempre che non accada il peggio a Kabul, saranno il Covid e la ripresa economica, gli investimenti in infrastrutture, il Green New Deal e il Welfare, i temi decisivi al primo test elettorale, nel novembre 2022 (legislative di metà mandato). Bush-Obama avevano declinato due versioni dell’internazionalismo. Trump-Biden hanno bucato la bolla delle illusioni imperiali che univa il Pentagono, l’establishment di politica estera, gran parte dei media nazionali. Vent’anni perduti e duemila miliardi sprecati in Afghanistan, l’errore strategico di focalizzarsi su un Medio Oriente in perdita d’importanza: tra gli elettori repubblicani e democratici si è radicata la convinzione che l’America deve fare nation-building a casa. Se c’è una speranza di arrestare la decadenza degli Stati Uniti, è curando i mali interni, non finanziando spedizioni fallimentari per esportare democrazia e diritti. Si può etichettare la politica estera di Trump come “isolazionista”, quella di Biden come improntata ad un realismo che impone rinunce. I due campi concordano che il ventennio delle guerre contro il terrorismo ha regalato tempo e risorse alla Cina per accelerare la corsa verso la supremazia. L’establishment globalista ha sempre rappresentato un’avanguardia. Anche ai tempi di Roosevelt, Truman e Marshall, quando si trattava di ricostruire l’Europa dalle macerie della Seconda guerra mondiale, un’America “profonda” avrebbe preferito ripiegarsi orgogliosamente su se stessa. Ma allora aveva i mezzi, economici e politici, per un Piano Marshall; o per trapiantare la liberaldemocrazia in Giappone. Oggi la maggioranza degli americani ha una visione disincantata e lucida sui limiti della propria potenza. Biden deve solo riuscire a riportare a casa i suoi, sani e salvi. È questo il test cruciale adesso. Se dovesse fallire, la crisi entrerà in una fase diversa.

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