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La Repubblica Rassegna Stampa
19.08.2021 Afghanistan 4: i fatti di ieri
Cronaca di Giampaolo Cadalanu

Testata: La Repubblica
Data: 19 agosto 2021
Pagina: 2
Autore: Giampaolo Cadalanu
Titolo: «La stretta dei talebani. Ma nel Nord nasce il fronte della resistenza»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 19/08/2021, a pag.2, con il titolo "La stretta dei talebani. Ma nel Nord nasce il fronte della resistenza", l'analisi di Giampaolo Cadalanu.

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Giampaolo Cadalanu

Afghanistan: il Covid19 colpisce i vertici dei Talebani

“Voi avete gli orologi, ma noi possediamo il tempo”: ancora una volta si è rivelato corretto il motto che la leggenda attribuisce ai guerrieri afghani. Che affrontino i moschetti delle truppe imperiali di Sua maestà britannica, gli elicotteri d’assalto dell’Armata rossa o i droni lanciamissili dei marines, dalla loro hanno armi vincenti come la tenacia e l’incapacità di cedere, anche a costo della vita. E la prova più evidente è il ritorno dei delegati talebani di Doha a Kandahar, nella città dove il mullah Omar si proclamò Emiro dei credenti, sotto il mantello che fu del Profeta. Abdul Ghani Baradar ha molti capelli bianchi in più, rispetto a vent’anni fa, quando è cominciato il suo esilio in Pakistan. E per leggere i proclami deve far affidamento sugli occhiali. Ma è sempre lui, l’uomo che aveva concordato con suo cognato la necessità di dare un coordinamento a quei giovani pii, studenti di madrassa, per schierarli a combattere contro gli abusi dei signori della guerra e a imporre la legge dell’islam al Paese. È sempre il co-fondatore degli “studenti coranici”, l’uomo che guidava la motocicletta cinese imitazione delle Honda su cui Omar riuscì a sottrarsi alla cattura. È l’uomo che ha aperto vie di trattativa con il governo di Kabul, che ha atteso paziente nelle carceri pachistane fin quando gli americani ne hanno preteso la liberazione, che ha condotto i negoziati sotto l’ala protettiva del Qatar e ha firmato un accordo di pace con gli Stati Uniti che molti considerano l’atto di capitolazione dell’Occidente. È l’uomo che oggi a Kandahar ritorna da vincitore, da padrone del tempo. È il numero due dei talebani, come l’erede della rete Haqqani Sirajuddin e il figlio del mullah Omar, Yakoob. Ma è anche la figura più conosciuta e carismatica, ben oltre il leader supremo Haibatullah Akhundzada, abile comandante ma forse indebolito dal Covid e tuttora lontano dalla ribalta politica. Dunque sarà Baradar a gestire la transizione, curando la nascita di un governo «islamico ma inclusivo», qualsiasi cosa questa formula voglia dire nel concreto. Farà appello al suo famoso pragmatismo. Ma non sarà un compito facile: se le prime esplorazioni sono già partite, con delegati talebani che hanno incontrato l’ex presidente Hamid Karzai, le basi di un possibile governo “inclusivo” sono lontane. Secondo le dichiarazioni di un portavoce all’agenzia Reuters, gli studenti coranici non accetteranno mezzi termini: l’Afghanistan sarà governato da un consiglio presieduto dal mullah Akhundzada, sulla base della sharia. Servirà tutta la capacità diplomatica di Baradar per lavorare su questi concetti. E non tutti saranno pronti ad accettare una cornice così stretta. I primi disordini, a Jalalabad, sono stati repressi duramente, con almeno tre morti. E il vero volto dei talebani si rivela con la distruzione delle statue — come quella del guerriero hazara Abdul Ali Mazari — e la copertura delle immagini femminili in mezzo Paese. Il tempo non ha corretto gli eccessi. Ma come venti anni fa e oltre, c’è un angolo dell’Afghanistan dove la minaccia dei talebani non arriva, e dove invece vive il mito. Nel nome venerato di Ahmad Shah Massud, la valle del Panshir si prepara alla resistenza. La comunità di etnia prevalentemente tagika non ha mai smesso di ricordare che qui gli “studenti coranici” non sono mai entrati. E se il figlio di Massud, Ahmad, è forse troppo giovane — e sicuramente troppo “occidentalizzato”, fra scuola militare di Sandhurst e laurea al King’s College — per raccogliere il retaggio del padre, adesso dal Panshir arriva anche la voce di Amrullah Saleh. Mentre il presidente Ashraf Ghani si rifugiava negli Emirati arabi (da cui ieri prometteva un rapido rientro), il suo vice decideva di non abbandonare il Paese, ma sceglieva la valle e la protezione dell’Hindu Kush. E rivendicava su Twitter il suo ruolo, sottolineando che quando il capo dello Stato è impossibilitato, tocca al suo numero due governare. Una dichiarazione di guerra completa, come forse era prevedibile dall’ex capo dei servizi segreti Nds, in passato uomo di fiducia di Massud, che negli ultimi anni si è profilato come irriducibile anti-talebani e nemico del Pakistan. E questo mentre il Dipartimento di Stato americano avverte che i talebani non hanno rispettato i patti, impedendo agli afghani di raggiungere l’aeroporto di Kabul: «Hanno tradito la promessa, contrariamente alle loro dichiarazioni pubbliche», ha detto Wendy Sherman, numero due della diplomazia americana. Una frase che apre scenari inattesi. Lo scenario, insomma, torna quello di oltre vent’anni fa. Il tempo è passato, poco è cambiato. Di diverso c’è la tragedia dei civili uccisi, il dolore delle vittime militari, lo strazio della devastazione ancora maggiore nel Paese. Oltre, naturalmente, alla gioia e ai floridi bilanci dei mercanti d’armi.

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