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La Repubblica Rassegna Stampa
18.08.2021 Afghanistan 1: terrore per le strade
Cronache di Pierluigi Bussi, Francesca Mannocchi

Testata: La Repubblica
Data: 18 agosto 2021
Pagina: 3
Autore: Pierluigi Bussi - Francesca Mannocchi
Titolo: «'Cercano casa per casa'. A Herat è partito il censimento dell’orrore - Tornano in tv le giornaliste. Le attiviste non si fidano»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 18/08/2021, a pag.3, con il titolo "'Cercano casa per casa'. A Herat è partito il censimento dell’orrore", la cronaca di Pierluigi Bussi; a pag. 6, con il titolo "Tornano in tv le giornaliste. Le attiviste non si fidano", il commento di Francesca Mannocchi.

Ecco gli articoli:

Will the Taliban Learn a Lesson From Hamas?

Pierluigi Bussi: " 'Cercano casa per casa'. A Herat è partito il censimento dell’orrore"

A Herat, dopo la conquista dei talebani della città e di tutto l’Afghanistan, si vive in una situazione surreale di calma apparente. Da un momento all’altro, senza preavviso, potrebbe trasformarsi in un inferno, soprattutto per le donne. Lo conferma Halima, una ventottenne che, al pari delle sue coetanee vive nel terrore, ma che ha deciso lo stesso di raccontare a Repubblica ciò che accade in città, pur sapendo i rischi a cui va incontro. «Erano le 16,00 dell’11 agosto quando ero appena uscita dalla facoltà di Giurisprudenza dell’università a Bagh Morad Street e ho sentito molti spari e visto gente fuggire. Era una vera e propria folla terrorizzata che urlava “Fuggite sono arrivati i talebani”». Quello è stato il momento in cui i miliziani dell’emirato islamico hanno assunto il controllo di Herat, occupando tutti gli edifici istituzionali della città dove aveva sede il comando del contingente italiano. Poi, «hanno cominciato a perquisire casa per casa, alla ricerca di soldati, partendo dal Jihad Museum a nord del centro, spostandosi prima verso la sede della Kabul Bank e poi verso la periferia ovest». Conclusi i rastrellamenti iniziali, hanno dislocato check point in tutte le strade principali e pattuglie mobili di uomini armati, ufficialmente affinché fosse “garantita la sicurezza” degli abitanti nel centro abitato. Poco dopo, però, sono cominciati altri tipi di “censimento”. Emissari del gruppo hanno intrapreso un’attività capillare per “identificare” tutte le donne single o vedove tra i 16 e i 45 anni. Halima, nonostante la sua giovane età, fortunatamente ancora non è incappata nelle maglie dei fondamentalisti. Forse perché vive in un piccolo appartamento molto lontano dal centro, insieme alla madre e al fratello Mostafa, docente universitario. Però, conferma quanto sta accadendo. «Ho saputo di molti casi al riguardo che fanno davvero paura. Non a caso, da quando i talebani hanno preso il controllo di Herat, cerco di uscire il meno possibile e quando lo faccio sono sempre insieme a mio fratello, che gode di grande rispetto in città. Altre, purtroppo, sono molto meno fortunate di me e per evitare di correre rischi, si sono barricate in casa e non vi escono da giorni». Molte delle ragazze o vedove che finora sono state censite, invece, cercano soluzioni veloci per fuggire dalla quasi certezza di finire in moglie di qualche comandante o membro dell’Emirato Islamico. Alcune tentano la fuga, nascondendosi all’interno dei coloratissimi convogli dei nomadi Kuchi, gli unici a cui in passato i talebani permettevano di circolare più o meno liberamente. Altre, invece, chiedono a parenti o amici di sposarle, in modo da diventare così intoccabili. «Finora non ci sono ancora stati tentativi in questo senso da parte dei talebani, ma sappiamo bene che è solo questione di tempo», ha aggiunto. «La gente locale è certa che prima o poi i fondamentalisti riveleranno la loro vera natura, che non è che cambiata nel tempo». Ciò lo si percepisce anche dal fatto che in centro a Herat le donne hanno ricominciato a indossare il burqa. «Dove vivo io ancora non è necessario, perché essendo poche famiglie in una zona di periferia, non interessiamo così tanto l’Emirato islamico e quindi si vedono raramente uomini armati in zona. Presto o tardi, però arriveranno anche qui. Nel frattempo, nonostante mi spaventi molto farlo, sto cercando un modo per fuggire dall’Afghanistan ormai irrecuperabile. Ad ora l’ipotesi più percorribile è arrivare in Iran, sfruttando alcuni amici che conoscono vie scarsamente battute dalle milizie talebane. Comunque, grazie al fatto che sono obbligata a passare quasi tutta la giornata a casa e di conseguenza ho molto tempo libero, navigo sul web e sui social media alla ricerca di soluzioni alternative per lasciare il paese e per capire quale sia stata la sorte di molti amici, di cui non ho più notizie da giorni. Soprattutto quelli che hanno intrapreso lo stesso viaggio che vorrei fare anche io. Non so cosa succederà nel mio futuro, ma sono sicura che preferisco morire tentando di fuggire da qui, che vivere una “non vita”, schiava dei talebani e della loro violenza».

Francesca Mannocchi: "Tornano in tv le giornaliste. Le attiviste non si fidano"

Tornano le donne a condurre in televisione, in Afghanistan, dopo due giorni di assenza. Ieri mattina dagli studi di Tolo News , la prima rete tv afghana di notizie 24 ore su 24, è andata in onda una diretta impensabile venti anni fa. Seduti uno di fronte all’altra ci sono Mawlawi Abdulhaq Hemad, uno dei rappresentanti talebani per i media e la comunicazione, e la giornalista Beheshta Arghand. Arghand chiede conto delle notizie di abusi da parte dei talebani, delle perquisizioni casa per casa. Hemad risponde di essere stupito che «la gente abbia ancora paura dei talebani». Poco prima, Saad Mohseni, direttore del gruppo Moby che controlla l’emittente, aveva scritto sui social: «Per quanti sono preoccupati per Tolo News , posso solo assicurare che i nostri stanno bene e che abbiamo continuato con la nostra trasmissione ininterrottamente durante questa “transizione”». Non solo le presentatrici in studio, ma anche le inviate per le strade di Kabul, sempre per Tolo News : ieri sono tornate a collegarsi live dalle strade della capitale due donne, Hasiba Atakpal e Zahra Rahimi. Immagini storiche. Ma è ancora troppo presto per dire se corrispondano a un cambiamento reale o alla necessità del gruppo di mostrarsi presentabili al mondo, per dire che il volto più moderato che i talebani vogliono dare di sé dopo l’entrata a Kabul, incoraggiando le donne a lavorare e addirittura a partecipare alla formazione del nuovo governo, non sia il modo per coprire la politica di esclusione delle donne che hanno già messo in campo nelle aree sotto il loro controllo. Da una parte, dunque, i talebani 2.0 seduti in uno studio tv di fronte a una donna, dall’altra i miliziani del gruppo che coprono con la vernice le fotografie di donne di fronte ai negozi di abbigliamento. Due anime dello stesso gruppo. E un Paese che cerca di capire quale prevarrà. Di certo, oggi, a due giorni dalla conquista della capitale, migliaia di donne sono chiuse in casa per paura. Come da mesi, ormai, restavano chiuse in casa attiviste e giornaliste, terrorizzate da un’ondata di omicidi mirati. Giornaliste come Malala Maiwand, dell’emittente Enikass della provincia di Nangarhar. Aveva 26 anni quando, a dicembre, è stata uccisa insieme al suo autista. «Sapeva parlare alla gente e trovava le parole giuste per descrivere le loro sofferenze. Era una gemma della società afghana» ci ha detto suo padre, Gul Mullah, nella modesta casa di famiglia a Jalalabad: «L’hanno punita perché era la voce dell’ingiustizia e del riscatto in una società in cui l’unico destino ammesso per le donne è la casa». Dopo di lei altre tre giornaliste sono state brutalmente uccise. Omicidi che hanno portato alcune emittenti della provincia di Nangarhar alla dolorosa scelta di non assumere più donne, per tutelare la loro incolumità. Secondo il Committee to Protect Journalists, un osservatorio globale dei media, dal 1994 in Afghanistan sono stati uccisi 51 giornalisti. A maggio Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, aveva avvertito i giornalisti afghani accusati di dare una copertura a favore del governo, dicendo loro di fermarsi o «affrontare le conseguenze». Ecco perché, oggi, molti sono chiusi in casa per paura di ritorsioni. Da maggio 51 organi di stampa sono stati costretti a chiudere, 5 canali tv, 44 stazioni radio e due agenzie. Mille giornalisti hanno perso il lavoro. La redazione di Jalalabad di Enikass , dove lavorava Maiwand, è chiusa. Tutte le attrezzature sono state portate via, di notte, in fretta. Restano solo due quadri. Uno ritrae la squadra di lavoro e uno le fotografie e i nomi dei colleghi uccisi.

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