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La Repubblica Rassegna Stampa
29.06.2021 'All'islam manca un Illuminismo'
Giancarlo Bosetti intervista Mustafa Akyol, oppositore di Erdogan

Testata: La Repubblica
Data: 29 giugno 2021
Pagina: 27
Autore: Giancarlo Bosetti
Titolo: «Un Illuminismo per il mio Islam»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/06/2021, a pag. 27, l'intervista di Giancarlo Bosetti dal titolo "Un Illuminismo per il mio Islam".

Mustafa Akyol: Jawi didn't like my talk on commonalities between Islam,  Christianity | Malaysia | Malay Mail
Mustafa Akyol

Mustafa Akyol è un intellettuale turco di 49 anni, tra i più brillanti sostenitori di un Islam rinnovato. Sarebbe stato una figura di punta in una diversa Turchia, che avesse preso la direzione europea, come appariva ancora possibile nel 2009. Editorialista di Hürriyet , difendeva in quegli anni un nuovo corso, ma Erdogan ha poi costretto la proprietà del maggiore quotidiano turco (gruppo Dogan) a sgomberare e lui a smettere. Scrive da allora sul New York Times , da quattro anni lavora al Cato Institute e vive in America. I suoi libri parlano di un Islam without Extremes: A Muslim Case for Liberty (Norton&Company, 2011). E l’ultimo è intitolato A Return to Reason, Freedom, and Tolerance (St Martins Essentials, 2021). Il volume si apre su un episodio autobiografico. Durante un dibattito a Kuala Lumpur, nel 2017, Mustafa viene fermato dalla polizia religiosa per sospetta apostasia, per aver sostenuto che la fede non si può imporre con mezzi di polizia. Se la caverà con una sola notte in guardina perché l’ex presidente turco Abdullah Gül, ancora con qualche influenza sulla monarchia malese, interviene in suo favore, e anche perché la Malesia non è l’Arabia Saudita. Comincia da lì la sua riflessione: in una moderna città dell’Asia, in un Paese relativamente libero, c’è ancora una polizia religiosa.

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La copertina

Oggi lei propone di "riaprire" la mente musulmana, ma dove ha cominciato a chiudersi? «Se la luce che si irradiava anche sull’Europa nella scienza e nella filosofia si è spenta mille anni fa, secondo molti di parte musulmana "la colpa è del colonialismo", che sarebbe la radice di tutti i nostri problemi. È vero che questa fu una grande tragedia, ma la mia tesi è che la stagnazione islamica è cominciata ben prima, e per un’altra ragione: l’Islam ha perso il suo spirito cosmopolita e pluralista, gli studiosi e i fedeli abbandonarono quella mentalità aperta che l’aveva fatto fiorire».

E perché lo fecero? «Sul piano teologico, giocarono un ruolo due passaggi essenziali. Il primo fu la criminalizzazione del pensiero non ortodosso nell’XI secolo, sotto l’influenza dell’Imam Al Ghazali: passò l’idea che se studiavi filosofia, se prestavi orecchio alle idee di Aristotele, eri un K?fir, un infedele. Qualcosa di simile, d’altronde, accadeva anche nel mondo cristiano. Il secondo fu la grande disputa teologica sul significato della Shari’a tra i Mutaziliti e gli Ashariti, e la sconfitta dei primi. Sull’interpretazione etica universalistica del comandamento divino prevalse nel XII secolo l’idea che il testo sacro detta letteralmente la legge. E il risultato è tutt’oggi sotto i nostri occhi, dall’Iran al Pakistan all’Arabia Saudita».

Norme cristallizzate nei secoli. In che modo si può aprire una nuova stagione? «Dobbiamo riscoprire personaggi che furono etichettati come eretici e delle cui idee abbiamo invece bisogno, due nomi esemplari: il gigante Ibn Rush (Averroè) e Ibn Tufail, l’autore della novella Il filosofo autodidatta , che ispirò Spinoza e Locke. Dobbiamo aprirci al mondo e compiere il passo dell’accettazione dei valori democratici, così come la Chiesa ha fatto nel 1965 con la dichiarazione Dignitatis Humanae e con il Concilio Vaticano II. E senza abbandonare i valori chiave della nostra fede».

Il suo libro ha ricevuto belle recensioni, ma qualcuno lo ha criticato come il risultato di un certo ottimismo americano. «Sono nato e cresciuto in Turchia, vivo stabilmente negli Stati Uniti da appena quattro anni — troppo presto per passare da americano — e difendevo queste tesi molto tempo prima di venire qui, perché mi baso su una tradizione genuina, quella del liberalismo islamico della tarda era ottomana. Penso a un intellettuale come Namik Kemal, al riformatore democratico pakistano Fazlur Rahman Malik o all’egiziano Nasr Abu Zayd che in Italia conoscete bene per averlo tradotto. Ottimismo? Pensate se mandassimo qualcuno con la macchina del tempo cinque secoli indietro e se questo immaginasse possibile la fine dei massacri tra cattolici e protestanti. Non sarebbe un inguaribile ottimista? Quando John Locke scrisse la sua lettera sulla tolleranza, propose un’idea radicale: anche lui troppo ottimista?».

Quanto tempo ci vorrà perché una stagione di Illuminismo islamico possa fiorire? «Dieci anni fa predissi una Turchia liberale, e sappiamo com’è andata, dunque mi astengo dal fare previsioni. Ma vedo cambiamenti in atto, dalla chiamata a un "Islam umanitario" dello sceicco Yahya Cholil Staquf, leader della più grande organizzazione islamica dell’Indonesia, al percorso politico di Rached Ghannouchi che ha ispirato il compromesso democratico in Tunisia. Penso a un Iran post-rivoluzionario democratico, quando cadrà l’attuale teocrazia; a un’Arabia saudita che dietro i metodi tirannici di Mohammed bin Salman mostra evoluzioni interessanti nell’interpretazione religiosa; a un dopo-Erdogan in Turchia, più libero e democratico. Siamo arrivati al punto più basso nella storia della civiltà islamica. Abbiamo visto Al Qaeda e l’Isis; ma ora c’è una nuova generazione che respira uno spirito cosmopolita. Nel frattempo, però è essenziale mantenere viva e forte la libertà in Occidente, perché se lì proliferano autocrati che chiudono i media scomodi, o se avanzano razzismo e intolleranza verso i musulmani, che cosa potremo mostrare come fonte d’ispirazione?».

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