venerdi 19 aprile 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
03.06.2021 Al Qaeda sta per tornare
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 03 giugno 2021
Pagina: 25
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Al Qaeda sta per tornare»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 03/06/2021, a pag. 25, con il titolo "Al Qaeda sta per tornare", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

Immagine correlata
Bernard-Henri Lévy

Osama Bin Laden, 10 anni fa veniva ucciso il leader di Al Qaeda- Corriere.it
Osama Bin Laden, per tanti anni capo di Al Qaeda

Per Trump era stato un vagheggiamento. Joe Biden, invece, l’ha fatto. E un anno dopo l’annuncio ufficiale, un passo alla volta, giorno dopo giorno, i 2.500 soldati americani ancora di stanza in Afghanistan hanno iniziato la loro ritirata, e con loro — per obbligo — gli altri contingenti stranieri della missione Resolute Support, di cui gli Stati Uniti erano il pilastro. Le conseguenze non si sono fatte attendere. L’annuncio di questa resa incondizionata, la notizia di questa partenza priva di gloria, di questo abbandono inaudito, di questa disfatta autoinflitta, ha avuto effetti immediati. Dei capi anziani, dei malek, hanno fatto subito visita ai comandanti delle guarnigioni del Wardak e di Ghazni, a ovest di Kabul, oppure, quando non sono riusciti ad arrivare ai comandanti, hanno telefonato ai loro familiari, per riferire cose di questo genere: «I vostri compari se ne sono andati; l’esercito nazionale afgano non è più in grado di difendervi; deponete le armi; saremo clementi». Abbiamo visto — su una strada che conosco bene e che unisce Kabul al Panjshir, ai confini, quindi, del territorio che fino agli inizi del XXI secolo fu il feudo del comandante Massoud e che da qualche anno è diventato quello di suo figlio Ahmad — la circolazione bloccata; checkpoint brutali che impediscono il vettovagliamento; villaggi presi d’assalto, tagliati fuori dal mondo; uomini armati che si presentano alle autorità locali per dire: «Arrendetevi; fate i nomi dei cattivi musulmani che ci sono tra voi, di chi ama le canzoni, di chi ha commesso apostasia, delle donne che si sentono libere; ma, soprattutto, non temete, perché noi siamo già così potenti da esserci infilati con altrettanta potenza in ogni ingranaggio del potere nazionale, a tal punto che nessuno, a Kabul, potrà venire né a soccorrervi né ad accusarvi di essere scesi a patti con noi».

Abbiamo visto, nella provincia di Herat, donne percosse sulla pubblica piazza e a volte, pare, addirittura lapidate. Abbiamo visto, a Jalalabad, 80 chilometri a est dalla capitale, una medica saltare in aria insieme alla propria auto, dove un gruppo di islamisti aveva collocato una bomba; e abbiamo visto due ragazze giovanissime, che lavoravano per la tv locale, assassinate, a bruciapelo, in mezzo alla strada, da un altro gruppo di jihadisti. Scopro che a Kabul si rintanano in casa le adolescenti che avevo filmato appena sei mesi fa negli stadi di calcio, nei caffè in cui si mescolavano ragazzi e ragazze, o che semplicemente gironzolavano per la città senza il velo; vengo a sapere che quei giovani che negli ultimi anni avevano riscoperto il piacere della musica ora nascondono i loro strumenti e cancellano dai loro laptop le app che servono a scaricare musica da internet; ricevo notizia che i giornalisti di Tolo News, il gruppo privato multimediale che diffondeva, e ancora diffonde, ogni giorno, informazione libera, vivono nel terrore delle esecuzioni mirate. Sempre a Kabul, ciò che resta dei servizi di sicurezza repubblicani sa, e da qualche giorno tenta di far sapere anche agli amici dell’Afghanistan libero, che tutti questi crimini sono opera non di gruppi fuori controllo ma di cellule di Al Qaeda e di Daesh talebani, che attendevano il momento propizio per uscire allo scoperto — che significa, in parole povere, che sanno che i talebani sono già venuti meno a uno dei rari impegni che l’America si era illusa avrebbero rispettato, e che costituirono la conditio sine qua non per iniziare i negoziati di Doha, e cioè: se dovessimo tornare nel giro, rinunceremmo almeno a fare da base o a divenire ricettacolo di organizzazioni che «potrebbero attaccare di nuovo la patria degli americani», Joe Biden dixit.

Sappiamo quindi che, esattamente come vent’anni fa, alla vigilia dell’11 settembre, Al Qaeda sta per tornare. Sappiamo che Daesh, in un’escalation folle, come accadde nello Yemen o in Pakistan, sta per contendere il primato della barbarie ai fratelli nemici di Al Qaeda. Sappiamo, e tutte le testimonianze che mi giungono lo confermano, che sia con l’uno che con l’altra, tanto con Daesh come con Al Qaeda, nei villaggi si rinnova lo stesso patto di sempre con il diavolo: «Voi, fratelli assassini, ci fornite le armi; voi formate le milizie che ci proteggeranno dall’immoralità e dai vizi; i fondi che spillerete ai vostri generosi compari che vivono all’estero scorreranno nelle nostre campagne; in cambio, vi garantiamo che in mezzo a noi nuoterete soddisfatti come pesci nell’acqua e potrete riprendere comodamente a ordire le vostre trame di guerra universale». Il seguito della storia, purtroppo, è già scritto: e così le cancellerie occidentali preparano i bagagli mentre compilano la lista dei loro collaboratori locali da sistemare lontano dal mirino della vendetta; e così, nonostante tutti scrivano il contrario, l’esercito nazionale si sfascerà proprio quando stava per strutturarsi, all’ombra del deterrente americano; così certe menti non impiegheranno molto tempo a programmare non dico un nuovo 11 settembre ma sì dei nuovi attacchi che — Dio ce ne scampi — moltiplicheranno, in Occidente, gli attentati suicida e le decapitazioni che, fino a poco tempo fa, si caldeggiavano tra Raqqa e Mosul. La Storia, quando è tragedia, si ripete sempre. Il ragionamento che ha portato a optare per questa débâcle è ben noto. È la convinzione — che Trump e Biden, come ho detto, condividono — che dalle «guerre interminabili» si debba «saper uscire». È il voler mettere nello stesso sacco la guerra a bassa intensità dell’Afghanistan e guerre come quella del Vietnam che accumulò, in metà tempo, un numero di morti e dispersi trenta volte più alto. È un ragionamento assurdo, dal punto di vista strategico. Ed è lo stesso ragionamento che, in sostanza, conferma ciò che era già stato annunciato ai curdi della Siria, consegnati a Erdogan; a quelli dell’Iraq dopo il loro referendum di autodeterminazione; ai somali vittime degli Al Shabaab e ad altri popoli: prostratevi, dannati della terra; basta geopolitica!; vedetevela voi con i russi, i cinesi, gli ottomani, i persiani, gli islamisti radicali; addio, mondo.
Traduzione di Monica Rita Bedana

Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT