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La Repubblica Rassegna Stampa
29.05.2021 Erdogan vuole cancellare quello che resta della Turchia laica
Cronaca di Marco Ansaldo

Testata: La Repubblica
Data: 29 maggio 2021
Pagina: 14
Autore: Marco Ansaldo
Titolo: «La grande moschea di Erdogan oscura il cuore laico di Istanbul»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/05/2021 a pag. 14 con il titolo "La grande moschea di Erdogan oscura il cuore laico di Istanbul" la cronaca di Marco Ansaldo.

Marco Ansaldo
Marco Ansaldo

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Recep Tayyip Erdogan

 

Una moschea grande grande. E un Ataturk piccolo, quasi minuscolo. A confrontarli ora, a poche decine di metri di distanza l’una dall’altro, non c’è partita: l’Islam pio e conservatore domina dall’alto il fondatore della Turchia moderna. E il Sultano nuovo Recep Tayyip Erdogan, 568 anni dopo la presa di Istanbul da parte di Fatih il Conquistatore, si appropria della piazza più laica della Turchia, sovrastando con cupola e minareti bianchi il monumento basso e scolorito dedicato a Mustafa Kemal. Era stato eretto nemmeno cento anni fa da uno scultore italiano, Pietro Canonica. Adesso sembra affondare nell’indifferenza di fronte a tanto splendore spirituale. Piazza Taksim da oggi ha una nuova moschea, che prende il nome del grande slargo centrale di Istanbul. È una costruzione colossale, come tutte le opere volute dal leader turco, si tratti di metro sotterranei al Bosforo o dighe imponenti sul fiume Eufrate. Ma la sfida di Erdogan all’emblema laico della metropoli più importante, e la presa simbolica del centro città, va a incidere in profondità nei tratti indimenticabili della Istanbul più nota. Qui, fra l’ingresso della moschea e la statua ad Ataturk, c’era la stazione di partenza del tramvai rosso, quello che porta alla Torre di Galata, l’antica Pera, il quartiere costruito dai genovesi. Oggi attraversato da Istiklal caddesi, la via dell’Indipedenza che è tuttora il corso dello shopping e dei locali dove ci si diverte, profuma ancora qui e là di raki, il liquore d’anice bandito dal partito al potere che come bevanda nazionale gli ha preferito l’ayran, lo yogurt liquido e salato. Il vecchio tramvai, triste e solitario oggi giace intrappolato in una via dietro la moschea, serrato dalla transenne e bloccato dall’imponente sicurezza. Ma Piazza Taksim, il cui nome significa Divisione, oppure Distribuzione, perché qui convogliavano le acque dal nord poi diffuse in tutta la città, è da sempre il cuore pulsante di Istanbul. Su queste pietre ogni primo maggio si riuniscono lavoratori e sindacati, spesso scontrandosi con esercito e polizia, in passato anche con morti. Qui manifestano le donne, oggi sconvolte e arrabbiate da quando il governo conservatore di ispirazione religiosa ha deciso di ritirarsi dalla Convenzione, detta proprio di Istanbul, paradossalmente, chiamata a proteggerle. Qui le associazioni omosex e Lgbt si ritrovano, durante il Gay pride, finendo regolarmente alle mani con le forze dell’ordine. Ma qui, soprattutto, sul lato ovest di questo slargo brutto e squadrato, al quale i turchi però sono ormai affezionati, si apre il Gezi Park. Ciuffi di alberi restano vivi, a vederlo dalla moschea. Entrandoci, il giardino è tuttora in piedi con le sue aiuole e fontane, benché i lastroni per cementificarlo restino minacciosamente ai lati. Esattamente otto anni fa, il 28 maggio 2013, la rivolta contro il governo conservatore partì proprio dal parco. Una protesta spontanea, nata a difesa degli alberi che le autorità minacciavano di tagliare per far posto a un centro commerciale. La ribellione, in breve, prese il sopravvent o diffondendosi ovunque nel Paese. Gezi Park divenne una cittadella chiusa, fortificata, dove i resistenti si organizzarono in una sorta di comune, costruendo un piccolo ospedale, una libreria, una scuola e un ristorante. Una sorta di irrealizzabile sogno, spezzato venti giorni dopo dai carri armati che buttarono giù i muri di cartapesta, spianando il parco. La repressione colpì di seguito tutte le città e i villaggi ribelli: almeno otto i morti, e centinaia i feriti. Una rivolta capace di conoscere persino dei momenti creativi. Davanti al Centro culturale Ataturk, da cui era stata fatta scendere una bandiera con l’immagine del fondatore, si rivolgevano gli occhi dei resistenti, per ore incollati in alto in una protesta muta ma eloquente. I ragazzi portarono i libri dei loro autori più amati, e seduti per terra sull’asfalto di Taksim leggevano e commentavano. Gli idranti degli agenti li spazzarono in un lampo. Erdogan ieri ha ricordato quel che accadde. Un’inaugurazione che non capita a caso in questa data. Dopo la preghiera del venerdì e le parole del Gran muftì, il presidente ha preso la parola: «Abbiamo mantenuto una promessa che non è potuta diventare realtà, prima per i fatti del 28 febbraio, quando ero sindaco (quando fu condannato a 10 mesi di carcere e il suo partito dichiarato fuorilegge, ndr). Poi da premier ci sono stati i fatti Gezi Park, quando si sono messi in mezzo quei terroristi». Quindi il presidente ha così continuato: «Non c’è nessuno che ha abbastanza forza per far tacere il richiamo della preghiera o per abbassare la nostra bandiera. Dopo l’apertura della moschea di Santa Sofia, considero l’inaugurazione della moschea a Taksim un regalo per il 568° anniversario della conquista di Istanbul». Infine un disegno futuro, con una prospettiva apparsa inquietante. L’annuncio che in breve tempo una nuova moschea verrà aperta a Besiktas. È il quartiere bene, dove il suo partito al potere prende pochi voti, dove la squadra locale ha appena vinto lo scudetto sconfiggendo le formazioni care al leader (Fenerbahce e Basaksehir), un’area insomma fieramente laica. Lì, aggiunge Erdogan, sorgerà la moschea intitolata a Barbaros Hayrettin Pasha. Cioè il pirata Barbarossa, l’ammiraglio dell’Impero ottomano molto attivo nel XV secolo. Nel Mare Mediterraneo, soprattutto. Una promessa che pare una sfida e un nuovo territorio di conquista.

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