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La Repubblica Rassegna Stampa
10.04.2021 'L'estate di Aviha', di Gila Almagor
Recensione di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 10 aprile 2021
Pagina: 15
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «I fantasmi di Israele»
Riprendiamo da REPUBBLICA - Robinson di oggi, 10/04/2021 a pag.15, con il titolo "I fantasmi di Israele", la recensione di Susanna Nirenstein.

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Susanna Nirenstein

Gila Almagor renews wedding vows to mark her 80th birthday - The Jerusalem  Post
Gila Almagor

L'estate di Aviha - Acquario Libri
La copertina (Acquario ed.)

Gila Almagor in Israele è un mito vivente; con i suoi oltre 50 film, e i premi, il teatro, anche adesso che ha 80 anni, viene considerata la più grande attrice del paese, una sorta di Anna Magnani, di cui per altro tiene una foto nella sua casa di Tel Aviv. Non è solo la bravura sulla scena — e la bellezza — ad averne fatto una regina, qualcuno dice che è la sua vita emblematica e coraggiosa di cui subito vi diremo (comunque Gila vuol dire gioia, e il cognome Almagor che si è scelta lasciando quello troppo europeo Alexandrowitz, significa senza paura, chiamandosi così Gioia Senza Paura!), qualcun altro pensa che la grande fama sia merito soprattutto de L'estate di Aviha, romanzo autobiografico del 1985 (diventato un film di Eli Cohen da Orso d'Argento a Berlino, 1989), tradotto in più di 20 lingue, un caso letterario adottato come libro di testo nelle scuole dello Stato ebraico, e ora portato finalmente in italiano dalla casa editrice Acquario per la mano felice di Paola M. Rubini. Gila dunque nacque nel 1939 a Petah Tikva, allora una piccola località a 10 chilometri da Tel Aviv, ancora nella Palestina del Mandato Britannico. Suo padre Max Alexandrowitz, immigrato dalla Germania nazista e arruolato nella polizia inglese, fu ucciso da un cecchino arabo 4 mesi prima che Gila nascesse; la madre Chaya era arrivata invece dalla Polonia dove la sua famiglia venne interamente sterminata a Auschwitz: lutti che lentamente la portarono alla follia e al ricovero. Noi arriviamo nella vita di Aviha/Gila mentre lei, a 9 anni, vive in uno dei molti villaggi comunitari a cui venivano affidati i tanti bambini orfani sopravvissuti alla Shoah o alla guerra, un luogo che lei ricorda popolato di risate e giochi durante la giornata, ma che di notte si riempiva di incubi. È l'Israele dei primi anni Cinquanta, povero, fatto di strade sterrate, sommerso di memorie spaventate di cui non si deve parlare, protesi come si è a costruire la nuova nazione. Lei comunque orfana non è, ha la mamma, per quanto straniata e lontana, la pensa sempre con amore. Ed eccola comparire un giorno in cui Aviha/Gila deve recitare in uno spettacolo della scuola: mentre è sul palcoscenico la vede entrare tra il pubblico, non sa più andare avanti, la rappresentazione si interrompe, la mamma Henia/Chaya la porta via in un raptus, non solo, convinta che abbia i pidocchi ("ma che cos'è? Un lager, un ghetto" commenta inorridita), appena arrivate nella povera casa dove vive, le taglia i capelli a zero, condannandola alle prese in giro dei bambini del quartiere che già si burlano di Chaya per la sua pazzia. Siamo arrivati nel mondo dei fragili. Gila Almagor in questo testo salto in dieci giorni di getto come dovesse liberarsi da un peso che la dilaniava, ripercorre tutti i giochi impietosi e le solitudini a cui è stata condannata, tutti i silenzi della madre sul passato (nella vita vera la mamma si era così infilata con la testa nel cuore dello sterminio da tatuarsi da sola i numeri sul braccio) e le attenzioni per la dissestata genitrice di cui da bambina deve farsi carico, i piccoli momenti di gioia, gli interrogativi su suo padre che si è convinta sia ancora vivo e che tocchi a lei rintracciare, i violenti scatti di rabbia che ogni tanto la prendono contro le coetanee e la isolano sempre di più. I ricoveri della mamma. E anche se sappiamo che Gila saprà uscire dalla cupezza in cui è cresciuta con determinazione e "senza paura", il mondo che ci apre davanti con una prosa immediata e viva è quello difficilissimo della Seconda Generazione, dei figli della Shoah, quello del primo Israele dove i sopravvissuti si muovono cercando di non fare rumore, condannando spesso i propri bambini a fantasie e rapporti tormentati. Strano, molto spesso gli ebrei ashkenaziti (quelli provenienti dall'Europa centrale) in Israele sono visti come l'élite intellettuale e politica che ha sempre dominato lo Stato: nella letteratura però il loro volto segnato appare in tutta la sua violenza. Deboli, esitanti, angosciati, incapaci di integrarsi nella società circostante, ecco come David Grossman e Amos Oz, hanno descritto infanzie che spesso si riferivano alla loro stessa biografia. Prendiamo Oz e il suo meraviglioso Una storia di amore e di tenebra del 2002, dove sua madre proveniente dalla Polonia non riuscirà mai a fare la pace con la cacciata dall'Europa e finirà per uccidersi nel 1952, lasciando il quattordicenne Amos così deciso a lasciare la cupezza da scegliere di abbandonare il padre, andare in kibbutz e prendere il cognome Oz, forza. Non vi fa pensare alla storia di Gila Almagor? Anche David Grossman racconta spesso di infanzie difficili. Pensiamo a Vedi alla voce amore, a Il libro della grammatica interiore, ma anche all'ultimo Applausi a scena vuota, dove spaventati figli di sopravvissuti alla Shoah fantasizzano di mostri del male che uccidono ebrei. La minaccia di un'ansia e di un'insicurezza profonda abitano in così tante case israeliane, ha risposto a chi gli chiedeva perché si sentisse a volte, pur non essendolo, parte di una famiglia di superstiti allo sterminio. Il gioiello di Gila Almagor appartiene a questo scrigno.

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