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La Repubblica Rassegna Stampa
20.02.2021 L'appello degli yazidi dimenticati: 'Il mondo non ci abbandoni'
Analisi di Pietro Del Re

Testata: La Repubblica
Data: 20 febbraio 2021
Pagina: 16
Autore: Pietro Del Re
Titolo: «Nel campo dei dimenticati l’appello degli yazidi: 'Il mondo non ci abbandoni'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/02/2021, a pag. 16, con il titolo "Nel campo dei dimenticati l’appello degli yazidi: 'Il mondo non ci abbandoni' ", la cronaca di Pietro Del Re.

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Pietro Del Re

Gli yazidi scampati al Daesh restano in ostaggio del nulla
Profughi yazidi

Nella tenda dove vive da sei anni e mezzo, stretta tra i suoi due bambini, lo sguardo dolce e il sorriso malinconico, Lami Hadji racconta il suo calvario. Come la premio Nobel per la Pace Nadia Murad e altre settemila donne yazide, nel 2104 fu anche lei rapita, stuprata e venduta come schiava sessuale dai miliziani dello Stato islamico che avevano invaso la regione irachena di Sinjar. «I miei aguzzini mi avevano lasciato il cellulare affinché raccontassi ai miei genitori quello che m’infliggevano. Io pregavo che gli americani bombardassero il villaggio dov’ero prigioniera: era meglio morire piuttosto che essere violentata più volte al giorno dalle bande del califfo». Un mese dopo, Lami riuscì a fuggire, e da allora vive nel campo profughi di Sharya, alla periferia di Duhok, nel Kurdistan iracheno. «Ho provato a tornare nel mio villaggio natale, ma dopo aver massacrato i nostri padri e i nostri fratelli, prima di andar via i jihadisti hanno distrutto le nostre case. Nulla è stato fatto per ricostruirle, manca l’acqua e l’elettricità, e da quel deserto di pietre e sabbia sono dovuta tornare sotto questa tenda», dice la donna. Secondo Berham Daman, occhi verdi e baffi imperiali, anche lui ospite del campo, il primo problema che si pone al loro ritorno verso Sinjar è la sicurezza. «Come possiamo ricostruire le nostre case e ripiantare i nostri orti in un luogo dove domani potrebbero tornare gli islamisti a sgozzarci, dove oggi combattono i curdi del Pkk contro l’esercito turco e dove i federali iracheni e i peshmerga curdi ancora ci sparano addosso perché ci confondono con chissà quale banda di briganti», dice Daman. «È vero, qui non paghiamo né il gas né l’elettricità. Ma spesso non ci distribuiscono abbastanza cibo, mancano il riso e la farina, e non ci sono soldi per comprarli perché per noi non c’è lavoro. Quello che più mi angoscia è che qui non c’è futuro per i nostri giovani». Ottantacinque anni, folta barba bianca e il capo coperto da un turbante, Asos Zelan parla dell’eccidio compiuto dallo Stato islamico come dell’ultimo dei settantatré genocidi subiti nei millenni dal suo popolo. Infatti, la sua minoranza etnica è da sempre perseguitata per il suo antichissimo e pacifico credo religioso in cui sono confluiti elementi di antico esoterismo, giudaismo cabalistico, cristianesimo mazdeo, zoroastrismo e sufismo. La loro Mecca, o il loro Vaticano, è Lalish, tra i monti del Kurdistan iracheno, dove l’Isis non è arrivato. Il tempio ha un aspetto fiabesco, con curiosi tetti conici alla cui cuspide sventolano fettucce di seta, con l’altorilievo di un inquietante serpente nero sulla destra del portale principale e con al suo interno colonne rigonfie di coloratissimi fazzoletti annodati gli uni agli altri. «Ma mai come adesso siamo stati vittime di una tale violenza», riprende Zelan. «Gli islamisti ci consideravano degli "apostati" ed erano i loro imam a incitarli all’odio con fatwa che diffondevano in rete. Erano loro che li autorizzavano a ucciderci, a depredarci, a stuprare le nostre donne e a rapire i nostri bambini per farne dei "musulmani". Oggi, sappiamo che tra il 2014 e il 2015 lo Stato islamico ha ammazzato circa cinquemila yazidi. Le sue squadracce hanno inoltre rapito diecimila dei nostri, per la maggior parte giovani donne e ragazzine che sono state portate a Mosul per diventare "schiave del sesso", mentre i loro figli venivano spediti nei campi di addestramento per farne dei futuri miliziani. Circa duecentomila yazidi sono stati costretti a fuggire. Poiché in Iraq siamo seicentomila, significa che un terzo della nostra popolazione vive oggi lontano da casa sua». Quando chiediamo a Zelan che cosa s’aspetta dalla comunità internazionale, l’anziano sorride, poi dice: «Vorrei che ci dessero un posto protetto, dove poter vivere in pace e dove saremmo disposti ad andare tutti insieme per evitare una nuova diaspora diffusa, come quelle che in passato ci hanno disseminato in Germania, Turchia, Russia, Armenia, Georgia e Svezia. Supplico perciò le grandi potenze di aiutarci, altrimenti il mio popolo sarà costretto a emigrare in ordine sparso ed è verosimile che tra pochi anni di noi, della nostra cultura e della nostra religione non rimarrà più nulla». Il 5 agosto 2014, fu Vian Dakhil a richiamare l’attenzione sulle sofferenze del suo popolo. Era allora la sola deputata yazida in Iraq e in lacrime, in un accorato intervento al Parlamento di Bagdad, denunciò al mondo lo sterminio dei suoi per mano dei fondamentalisti islamici. La raggiungiamo al telefono per chiederle che fine hanno fatto le settemila donne che furono allora sequestrate: «Alcune riuscirono a fuggire dopo pochi mesi di prigionia, altre sono state liberate dai curdi e dagli arabi siriani solo due anni fa, dopo la conquista dell’ultima roccaforte del Califfato a Baghouz, sulle rive dell’Eufrate. Ma molte sono state costrette a sposare i loro carcerieri, e molte altre sono state da loro uccise». Al campo di Sharya incontriamo anche Fatima Hassim, a cui lo Stato islamico portò via diciassette parenti, tra sorelle, figli e nipoti. «Con alcuni di loro sono riuscita a parlare per qualche giorno dopo il loro sequestro. Poi, più nulla. Il vuoto. Da allora non ho più notizie di nessuno di loro. Ogni tanto si scopre una fossa comune intorno a Sinjar, ma è comunque troppo tardi per riconoscere i corpi. Vorrei tanto che qualcuno mi aiutasse a ritrovare qualche traccia degli scomparsi. Ma non saprei neanche a chi rivolgermi ». Prima di lasciare questo campo che ospita quattromila famiglie incrociamo Rasho Hamo, cinquantun anni, monco del braccio destro. «Me l’hanno tagliato gli islamisti a Mosul, dopo avermi catturato e quasi ucciso di botte. Quando li vedemmo arrivare, io e pochi altri imbracciammo le nostre doppiette per difenderci. Ma loro erano troppo numerosi e con armi molto più potenti delle nostre. Sono scappato appena ho potuto e sono approdato a Duhok, dove sono parcheggiato da quasi sette anni. Il mondo s’è dimenticato di noi».

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