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La Repubblica Rassegna Stampa
02.01.2021 L'imperativo della testimonianza
Intervento di Lia Levi

Testata: La Repubblica
Data: 02 gennaio 2021
Pagina: 17
Autore: Lia Levi
Titolo: «L'imperativo della testimonianza»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA ROBINSON di oggi, 02/01/2021, a pag. 17, l'analisi di Lia Levi dal titolo "L'imperativo della testimonianza".

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Lia Levi

È davvero un ben cupo periodo quello in cui, sferzati e quasi annichiliti dal Mostro (siamo retrocessi a simboli così tanto primigenii?), ci troviamo a ripensare e discutere su termini che consideravamo connaturati in noi da sempre. Intendo parole come cultura, apprendimento, scuola. E in una specie di meravigliata riconquista scopriamo, come se fosse la prima volta, che imparare e trasmettere conoscenza non è affatto una sovrastruttura figlia della civilizzazione, ma esattamente il contrario. Il bisogno di rappresentarsi è, dobbiamo ricordarcelo, strettamente legato alla natura umana, proprio come nutrirsi, dissetarsi, amare, sognare, e, quando pensi di soffocarlo, ti scoppia tra le mani in una miriade di non governabili scintille. E così ci viene magari da ripensare all’ “antenato preistorico”, lì ad Altamira o Lescaux, intento a graffiare sulle pareti della caverna la sagoma di un animale della foresta. Ci sarà stato di sicuro qualcuno che lo spiava da qualche angolo per carpirne i segreti. E, in un giorno di buona disposizione, il nostro antenato gli si sarà fatto maestro. Lo avrà fatto perché tutto quello che è basilare alla nostra esistenza contiene in sé l’imperativo della trasmissione, basta pensare alla grande Creazione a nome DNA!. Adesso quell’antenato deve aver ripreso a bussare forte dentro di noi. È il caso di ascoltarlo.

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Un altro “antico”, questa volta il pensatore Dionigi di Alicarnasso, ci ha proposto una definizione stimolante: “la storia” ha scritto, “è la filosofia che procede per esempi”. Possiamo senz’altro farla nostra. E allora, se cerchiamo gli esempi, perché non partire da quelli grandi fatti di parole grandi? Parlo naturalmente di Primo Levi con il suo memorabile Canto di Ulisse e, più in breve ma con la stessa valenza, di quello che ci ha raccontato Liliana Segre. Il Se questo è un uomo, lo scritto di Levi che si è ormai “trasformato in benedizione”, rappresenta da tempo una pietra miliare non solo della letteratura, ma anche come analisi dell’abisso in cui la specie umana può precipitare. È così che l’autobiografia arriva a toccare l’universale. “Non sono abbastanza vivo per sapermi sopprimere”. Ricordate questa frase? Esiste una sintesi più incisiva e pregnante per esprimere lo stato di abbrutimento del prigioniero schiavo nel lager? È qui che la sofferenza individuale si è trasformata in epos. E arriviamo al Canto di Ulisse che, per chi lo ha letto, continuerà a risuonare dentro come solenne tocco d’organo. La vicenda in breve è questa. Primo Levi, ai lavori forzati in una cisterna interrata, viene scelto dal Pikolo del Kommando - una specie di factotum visto con indulgenza nel lager - come compagno per andare a ritirare il rancio per la loro squadra di lavoro. Il vero nome del Pikolo è Jean. È un giovane alsaziano, parla correttamente francese e tedesco ma ha anche abitato a Genova, gli piace l’Italia, è desideroso di imparare l’italiano. Il luogo in cui devono arrivare è a più di un chilometro di distanza, ci sarà molto tempo per parlare. Primo si offre come insegnante. “Il Canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente” ci racconta Levi. Dante, la Divina Commedia, l’Inferno, il contrappasso, il maestro cerca convulsamente di spiegare quante più cose possibile. Gli salgono alla memoria versi che ha tanto amato. Ma all’improvviso si ferma, qualche parola gli viene meno, non è sicuro di tradurla in francese in modo esatto, poi si riprende e ricomincia a volare. Pikolo ascolta, interessato, paziente, quando l’amico arranca cerca di aiutarlo con il francese. Quando si arriva a “Fatti non foste a viver come bruti / Ma per seguir virtute e canoscenza” è come se Primo stesse gridando “Attento! Ho bisogno che tu capisca!”. Ed è anche come se lui stesso la sentisse per la prima volta, “come la voce di Dio”. Ma di sicuro Pikolo ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e riguarda loro due “che osano ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”. In quel momento “è successo qualcosa di gigantesco”. Lui, quel povero rottame non più umano, forse “nell’intuizione di un attimo” ha captato “il perché del nostro destino”. Talmente “gigantesca”, questa lampeggiante intuizione non può che indurre al silenzio anche noi che leggiamo.

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Primo Levi

L’episodio che ha raccontato Liliana Segre (lo ha poi ripreso nel suo Ho scelto la vita appena apparso in libreria), seppur più serrato nelle dimensioni, ci propone un disegno con contorni simili. Liliana, deportata bambina, lavora come schiava in una fabbrica di munizioni vicino ad Auschwitz. Il suo compito è quello di consegnare pezzetti di ferro a un altro operaio schiavo. È francese questo altro, è un insegnante di storia. Parlare fra prigionieri è proibito, qualche parola di nascosto però riescono a scambiarsela. Ma in quei pochi minuti strappati giorno dopo giorno lui le trasmette rapido un frammento di Sapere. “In quegli istanti” dice la Segre, “non eravamo più pezzi senza nome, come venivamo chiamati, ma un professore e una sua alunna”. Liliana era ritornata una persona, era salva. Anche in questo caso siamo di fronte a qualcosa che ci costringe a chinare il capo. Così succede quando prendiamo contatto con il mistero dell’essere umano. Una seppur minima nozione culturale dunque ti può tenere in vita più di un avanzo di pane, anche quando stai forse morendo di fame.

E arriviamo all’oggi e all’uragano che a testa bassa sta scompaginando anche quella roccaforte chiamata scuola. Prima però un chiarimento che considero essenziale e non vale solo per questa circostanza. Non confondiamo gli elementi basilari legati alla natura umana (quelli sì che ci unificano!) e gli eventi fattuali che la Storia ci va via via proponendo. Li sentiamo spesso questi paragoni, formulati magari con la migliore buona volontà. Ma l’addomesticare il passato in funzione dell’oggi non giova, anzi, è deleterio. Conoscere è separare, è passare dall’indistinto al distinto, e senza il riconoscimento della differenza anche l’identità finisce con lo sparire. Mettere tutto su un vago terreno comune ottiene solo il risultato di danneggiare proprio le specifiche cause a cui ci stiamo riferendo. Il dolore va rispettato, non si può soppesarlo all’ingrosso. I bambini come noi di allora, figli della persecuzione e della successiva caccia all’ebreo, non avevano semplicemente perso la scuola, ma perduto, insieme a tutti gli altri diritti - compreso quello alla vita - il diritto alla scuola. Così come le vittime odierne di un devastante terremoto ci tirano a sé sul piano del dolore, ma non sono la stessa cosa degli assassinati nella strage di Marzabotto del 1944. Lo ribadisco: il dolore è lo stesso, le circostanze no. Ed è doveroso e costruttivo vedere le differenze: lo scatenarsi imperscrutabile della natura nel primo caso, quello di una volontaria brutalità umana nel secondo. Spero proprio che i ragazzi con cui riesco a restare in contatto anche in questo periodo (in piattaforma, naturalmente) comprendano il senso di quello che ho tentato di spiegare. Sapere senza capire non ha senso, non costruisce nulla. Certo però che la reazione, il fare, “l’arrangiarsi creativo” sono una spinta che accomuna tutte le persone e tutti i tempi del mondo. E certo che in questo senso si procede tutti insieme. Ci vengono in mente allora le scuole che, magari in una soffitta, si sono rapidamente organizzate, da parte ebraica, quando il governo fascista aveva espulso dalle classi del regno tutti gli alunni israeliti. E che dire delle lezioni che, in tempo di guerra e bombardamenti sul suolo italiano, trovavano il loro spazio in angoli rimasti illesi in mezzo alle macerie? E mi viene da pensare anche all’immediato dopoguerra alle scuole ospitate in locali improvvisati, molti prestati da organi religiosi, visto che erano pochi gli edifici scolastici rimasti in piedi in città e campagne. E i doppi turni in certi pomeriggi sonnolenti? È un fenomeno questo che si è riaffacciato anche in tempi più recenti, quelli ormai di nostri figli e nipoti. Perché adesso no? Non ci è dato di saperlo. Le scuole devono trovarsi un modo per funzionare. Sono ambiente protetto le scuole, non solo per la loro sofferta ma rigorosa osservanza delle regole sanitarie, ma perché, rispettandole, i ragazzi si aprono a una conquista molto più importante: scoprono cosa è il senso civico, e cosa significa far parte di una società. Gli studenti, anche grazie a meravigliosi docenti, sempre di più stanno diventando cittadini. E le modalità con cui si esprimono, si vedono già. Di fronte alle aule chiuse, lezioni in piedi all’aperto con insegnanti e alunni, distanti ma presenti; studenti che, rifuggendo dall’insegnamento a casa, impugnano il loro tablet e vanno a seguire le lezioni accucciati sui gradini della loro scuola; ragazzini che scrivono ai giornali chiedendo il ritorno in classe. Può sembrare retorica, ma non lo è. Questi sono i mezzi di cui dispongono e che usano con creativa libertà. La cultura non è fatta di righe stampate in un libro o proposte attraverso uno schermo. Lo spartito con le note non è ancora musica. Ci vuole qualcuno, un maestro, che ti aiuti a trasformarle in musica. E per le righe stampate sempre un maestro serve per convertirle in materiale vivente, in una continua ricerca di significato. E che questo maestro sia pure il serpente che ha convinto i nostri antenati Adamo ed Eva a disobbedire a Dio per assaggiare quel frutto proibito della conoscenza, che al posto del perduto paradiso, gli avrebbe regalato il mondo intero con le sue inquietanti e magnifiche contraddizioni.

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