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La Repubblica Rassegna Stampa
02.12.2020 Iran, il ricercatore Djalali condannato a morte. L'appello della moglie: 'L'Italia aiuti a salvarlo'
Commento di Gabriella Colarusso

Testata: La Repubblica
Data: 02 dicembre 2020
Pagina: 17
Autore: Gabriella Colarusso
Titolo: «La moglie di Djalali: 'L’Iran fermi l’esecuzione Ahmadreza è innocente'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 02/12/2020, a pag.17, con il titolo "La moglie di Djalali: 'L’Iran fermi l’esecuzione Ahmadreza è innocente' ", il commento di Gabriella Colarusso.

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Gabriella Colarusso

Ahmadreza Djalali, si avvicina la pena di morte per il ricercatore novarese  detenuto in Iran
Ahmadreza Djalali

Ahmadreza Djalali potrebbe avere ancora poche ore di vita. «Hanno trasferito Ahmad nella prigione Rajai Shahr di Karaj per eseguire la sua condanna a morte», ci dice al telefono sua moglie, Vida Mehrannia, che vive in Svezia con i loro due figli. «Ahmad è innocente», ripete con la voce sfinita. «Chiedo alla società civile, al governo italiano di aiutarmi a liberarlo». Per tutto il pomeriggio di ieri Mehrannia è stata in contatto con la diplomazia svedese che sta tentando una mediazione difficile, estrema, per ottenere clemenza dal governo iraniano e salvare la vita di Djalali, uno scienziato con doppia nazionalità iraniana e svedese esperto in medicina dei disastri. Aveva lavorato anche con l’Università del Piemonte Orientale, a Novara, dove ha vissuto per diverso tempo specializzandosi al Crimedim. Nel 2016 era tornato a Teheran dove vive sua madre per una conferenza all’Università: è stato arrestato con l’accusa che già ad altri stranieri e cittadini con doppio passaporto è costata anni in prigione, spionaggio per conto di Israele, e condannato a morte. In carcere ha perso peso, si è ammalato più volte. Una settimana fa ha chiamato la moglie avvisandola che quella sarebbe potuta essere l’ultima telefonata. Pochi minuti. «Mi ha detto che lo avrebbero messo in isolamento nella sezione 209 del carcere di Evin per una settimana fino a martedì (ieri, ndr ) e che poi l’avrebbero portato a Karaj probabilmente per eseguire la sentenza», racconta Mehrannia. Rajai Shahr è il penitenziario dove vengono eseguite le condanne a morte, di solito il mercoledì. La figlia più grande di Djalali, che si è appena diplomata, sa che cosa sta succedendo. «Mio figlio no, è troppo piccolo», dice la madre. Un anno fa Mehrannia aveva incontrato anche il presidente della Camera Roberto Fico per sollecitare l’impegno dell’Italia: «Il governo italiano faccia pressione sull’Iran». Djalali ha sempre respinto le accuse a suo carico dicendo di essere stato punito per essersi rifiutato di diventare una spia. Il governo iraniano parla di "interferenze" indebite e rivendica l’indipendenza della magistratura, ma per le organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International il processo è stato arbitrario e iniquo. Djalali ha subito pressioni perché confessasse. In difesa dello studioso in Italia si sono mobilitati anche i Radicali, i ricercatori del Crimedim, gli avvocati dell’Aiga. Da Bruxelles è arrivato l’appello del presidente del Parlamento europeo David Sassoli: «Chiediamo un gesto di clemenza in nome della vita». Nelle prigioni iraniane ci sono almeno sei cittadini stranieri o con doppia nazionalità. La scorsa settimana, dopo un negoziato durato due anni, è stata liberata la britannico- australiana Kylie Moore-Gilbert con uno scambio di prigionieri: la Thailandia ha rilasciato tre iraniani arrestati nel 2013 con l’accusa di aver pianificato un attentato contro funzionari israeliani a Bangkok. Cinque giorni fa, vicino a Teheran, è stato ucciso in un’imboscata lo scienziato Mohsen Fakhrizadeh. L’Iran accusa Israele dell’assassinio. La tensione dentro e intorno al Paese è alta, lo spazio per la diplomazia è stretto.

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