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La Repubblica Rassegna Stampa
25.10.2020 La battaglia delle idee che aspetta l’Europa
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 25 ottobre 2020
Pagina: 1
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «La battaglia delle idee che aspetta l’Europa»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/10/2020, a pag.1-24 con il titolo "La battaglia delle idee che aspetta l’Europa" il commento di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

Is the European Union governed by 'unelected bureaucrats'? | LSE  Undergraduate Political Review

Ecco che ci si mettono pure gli scienziati. È un editoriale della prestigiosa rivista americana Nature. Si comincia col condannare le violenze della polizia. Si saluta la comparsa del movimento Black Lives Matter. Poi, saltando di palo in frasca, si riducono i laboratori e gli istituti di ricerca a “istituzioni bianche”, che avvalorano quelle che Jean Genet chiamava “le regole bianche”; si percepisce l’impronta, nell’insegnamento, di un “razzismo sistemico” che snatura anche gli spiriti migliori, e così come la ginecologia sarebbe “nata dallo schiavismo”, anche le “scienze esatte” sarebbero infettate dal virus della discriminazione, dell’ingiustizia, dell’odio… Contrariamente a quello che sembrano credere i più informati di questi invasati, i nietzschiani della French Theory non hanno mai professato simili fesserie. E neppure il mio maestro, Louis Althusser, che aveva ben altra classe nei suoi “Corsi di filosofia per scienziati”. No, la verità è che stiamo assistendo al ritorno, nel cuore stesso della democrazia statunitense, del “lysenkismo” staliano e la sua idea di una “scienza proletaria” che contrappone le sue “verità” a quelle della “scienza borghese”. Atroce. Ci sono state delle epoche della storia dell’Europa in cui l’Europa non esisteva. Si diceva” cristianità”. O “romanità”. O, come in Erodoto, la “terra di fronte”. Non si diceva “Europa”. Non si pensava “Europa”. Era possibile figurarsi il mondo senza minimamente prendere in considerazione quella che oggi chiamiamo Europa, e che non è, di conseguenza, né un fatto di natura né un dato della geografia e del mondo. Senza parlare di quei momenti, nei tempi moderni o premoderni, in cui l’Europa, benché inventata, si è disfatta o diluita (dopo Carlo Magno, Carlo V, il primo impero, il miracolo austroungarico). L’Europa, in altri termini, ha, come qualunque altra cosa, una storia. Ha un atto di nascita e avrà, un giorno, un atto di morte. Ma quell’appuntamento fatale (un heideggeriano direbbe “storiale”) è in nostro potere lasciarlo venire oppure, al contrario, ritardarlo… Questa è la posta in gioco della battaglia per o contro l’Europa. Questo è il senso della battaglia delle idee che sta andando in scena. Contro gli errori gemelli del progressismo e del declinismo, di fronte ai due provvidenzialismi simmetrici che si contendono il corpo della principessa Europa, c’è soltanto un’urgenza: un balzo in avanti nell’Europa federale. I medici curano.

Ma i filosofi filosofeggiano, o comunque dovrebbero farlo. Ragione per cui il loro ruolo non è di pronunciarsi su questo o quel rimedio o questo o quel gesto barriera, ma di riflettere sul tipo di governabilità e, forse, di civiltà che potrebbe preparare la nuova ragione igienista. Attenzione, dice il filosofo che si ricorda del pharmakon platonico, alla prossimità originaria della cura e del veleno. Attenzione, se si ricorda di Michel Foucault e dei suoi ultimi corsi al Collège de France, a non acconsentire a una scelta inaccettabile come potrebbe essere quella tra salute e libertà. E preghiamo che lo stato di eccezione sanitaria non diventi, alla fine, la nuova normalità di un mondo dove ci si abituerebbe al peggio: i cani addestrati per fiutare i malati di covid, i programmi spia negli smartphone, le cene tra amici regolamentate, la chiusura di bar e altri spazi di socializzazione o, come in Canada, le autorità sanitarie che raccomandano di amarsi in solitario o, se proprio non ci si riesce, con la mascherina… Aprire – virtualmente, ahimè, e attraverso Zoom – il Congresso sionista mondiale 2020. Ombra di Theodor Herzl, Max Nordau, Haim Arlozoroff, Chaim Weizmann, Martin Buber e tanti altri, tutti questi principi del sionismo, questi poeti e questi sognatori, questi salmisti moderni che mi hanno preceduto, da centoventitré anni, su questa prestigiosa tribuna. Fantasma di quei pionieri che, mentre reinventavano l’ebraico e si davano, a volte, nomi nuovi ispirati alle figure dello splendore biblico, apportavano a questa Israele reinventata la potenza del loro lirismo e della loro scienza, della loro competenza libraria e della loro sete spirituale, del loro gusto per la chimera e della loro intelligenza pratica. Che in una modernità così profondamente splenetica siano potuti esistere uomini del genere è una cosa che non cessa di meravigliarmi. Che siano riusciti a condurre in porto un simile esperimento di terra rivivificata, di deserto fiorito, di miracolo razionale e di speranza sotto le stelle, questa fu la grandezza del progetto sionista. Questo slancio non si è spento e in questa giovane epopea nazionale, in questa responsabilità per una terra a cui la loro memoria, il loro desiderio, le loro preghiere avevano da tempo destinato gli ebrei e di cui si fanno carico da settant’anni, nella paura e nella fede, insomma in questo regno di tipo nuovo e nato dalla più lunga, accidentata e caotica gestazione nazionale della Storia universale, si gioca, al di là della politica, qualcosa del destino del genere umano. Quando si parla di separatismo, non si stigmatizzano i musulmani, li si libera. Si infrangono i muri della prigione islamista. Si rompe la logica dell’amalgama che è la vera logica degli estremisti. Si spezza il maleficio che vorrebbe condannare i credenti a essere ostaggi di un’ideologia criminale. E li si reintegra in una repubblica che gli altri – i separatisti – suggeriscono essere sostanzialmente, definitivamente, quasi etnicamente estranea. Anche qui, si è servi per l’origine e liberi per la legge. Una volta di più, sono gli indigenisti, gli islamosinistroidi, gli adepti della teoria del genere e gli idolatri dell’identità i razzisti più temibili. Senza parlare di quel grande partito degli imbecilli contro cui Goethe diceva che nemmeno gli dei potevano nulla. Legge della giungla? Barbarie? No. Nichilismo.
Traduzione di Fabio Galimberti

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