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La Repubblica Rassegna Stampa
03.10.2020 'Il ghetto interiore', di Santiago H. Amigorena
Recensione di Wlodek Goldkorn

Testata: La Repubblica
Data: 03 ottobre 2020
Pagina: 10
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «Separati dal ghetto e dall'oceano»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA - Robinson di oggi, 03/10/2020, a pag.10 con il titolo "Separati dal ghetto e dall'oceano" la recensione di Wlodek Goldkorn.

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Wlodek Goldkorn 


Neri Pozza Editore | Il ghetto interiore
La copertina (Neri Pozza ed.)

Sembra la Terra vista dalla Luna, a tratti l'intenso, in altre pagine molto riflessivo, comunque sempre bello romanzo Il ghetto interiore, di Santiago H. Amigorena, scrittore francese originario dell'Argentina. La Terra è il quartiere ebraico, istituito nell'ottobre 1940 a Varsavia da occupanti tedeschi e dove furono stipate, dietro un muro oltre 400 mila persone. La Luna è Buenos Aires, luogo lontanissimo dall'Europa del centro, forse il più lontano possibile, sulla faccia del nostro pianeta. Il protagonista del libro Vicente Rosenberg e un giovane uomo in fuga. In fuga da che cosa? Certamente dalla Polonia di prima della guerra, sicuramente dal dovere di appartenenza all'ebraismo - inteso non tanto come fede ma come destino - probabilmente dall'ambizione di far carriera, diventare un bravo avvocato, un professionista apprezzato, un uomo che incide sulla forma della società in cui vive. Vicente invece vuole solo dimenticare, desidera un'esistenza mediocre. Il protagonista frequenta il caffè Tortoni, lo stesso di Borges e per questo rassicurante: una bella moglie, tre tenerissimi bambini, due amici con cui andare al caffè Tortoni (lo stesso frequentato da Jorge Luis Borges, scrittore molto presente, sempre sottotraccia, nel romanzo) e il negozio di mobili regalato dal suocero. La strategia dell'oblio ha successo. Finché un giorno, nell'autunno del 1940, con la resa della Francia alle annate naziste, la Storia non finisce per insinuarsi nell'aria del caffè rifugio e nelle conversazioni fra amici. Poi, Vicente, riceve una lettera, scritta da sua madre, rinchiusa nel ghetto e che chiede aiuto. Qualunque forma di aiuto, soldi, ma anche pensiero e prima di tutto: parole. O forse il contrario, forse la madre di Vicente vuole soprattutto le parole e solo dopo i soldi. Non lo sappiamo. Osserviamo però quel che succede al protagonista del libro. Ma prima di raccontarlo: un'annotazione generale. L'oblio fa parte della memoria. Non c'è memoria senza oblio, perché se ci ricordiamo tutto, finiamo come Funes il memorioso, il protagonista di un racconto di Borges, appunto, dove l'incapacità di dimenticare, dovuta a un incidente, porta alla catastrofe. Però, mentre di solito l'oblio viene dopo la memoria, in Borges si ha l'impressione che l'oblio preceda la memoria. E poi, sempre Borges è forse il massimo maestro nel trasformare la realtà in immaginazione, non come fuga dalla realtà appunto, ma come il modo migliore di restituirla al lettore, destrutturata e per questo potenziata. E sono quelle le due operazioni - far nascere la memoria dall'oblio e potenziare la realtà attraverso l'immaginazione - che tenta di fare (con successo) Amigorena. Vicente dunque, ancora in Polonia, faceva parte di un mondo che aveva deciso di abbandonare lo yiddish, la lingua parlata dagli ebrei dell'Europa centrale e orientale, per "assimilarsi" (si diceva cosl) nella società polacca. Per riuscirci, occorreva essere borghesi e benestanti e la sua famiglia lo era. Ufficiale dell'esercito, combattente nella guerra contro i bolscevichi nel 1920, a una certo punto capisce che l'antisemitismo presente nel paese è più forte della speranza di essere riconosciuto come un "buon polacco". E così, privo di illusioni ma ancora giovane se ne va all'estremo confine della Terra. L'autore dedica molte pagine alle dispute fra il protagonista e i suoi amici circa la loro appartenenza, si interroga sul significato dell'essere ebreo per arrivare alla conclusione che le nostre identità sono molteplici. Sono pagine interessanti, ma non fra le più emozionanti. Là dove invece il testo è scritto e pensato in un modo da rendere davvero inquieto il lettore è nelle parti in cui il risveglio della coscienza, il lavorio interiore di Vicente, lo porta al silenzio. Bellissime anche le righe in cui rovescia la narrazione sul ghetto. Spieghiamoci. Del quartiere ebraico di Varsavia sappiamo tutto, grazie al lavoro di documentazione che fu fatto dai resistenti e dagli intellettuali rinchiusi, mentre stava succedendo l'indicibile. Nessun teatro della Shoah è così ben documentato come quello. Amigorena ha però il coraggio di reinventare. Ad esempio, trasforma una canonica immagine di un filmato girato dai tedeschi, in cui si vede una madre impazzita e disperata che vestita di stracci culla in strada un neonato morto, in un racconto che fa la madre di Vicente, in una lettera, altrettanto disperata. Ma il suo bambino, Vicente, è vivo e sta bene. Sta bene davvero? No. Perché, come si diceva, gli manca la parola. Vicente tace, si allontana dal mondo. Trova la consolazione solo nella musica, quell'arte dove la parola è assente e l'emozione puramente astratta. Ma senza la parola non c'è racconto e quindi viene a mancare il mondo. Ma poi la vita prevale. Vicente era il nonno dell'autore.

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