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La Repubblica Rassegna Stampa
29.08.2020 Ma Luther King predicava l'opposto dei violenti Black Lives Matter
Commenti di Federico Rampini, Anna Lombardi

Testata: La Repubblica
Data: 29 agosto 2020
Pagina: 10
Autore: Federico Rampini - Anna Lombardi
Titolo: «Trump contro Biden al via lo scontro finale - Il grido di Washington: 'Il sogno di King è vivo ma basta violenza'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/08/2020, a pag.10, con il titolo "Trump contro Biden al via lo scontro finale", il commento di Federico Rampini; a pag. 11, con il titolo "Il grido di Washington: 'Il sogno di King è vivo ma basta violenza' ", il commento di Anna Lombardi.

A destra: Donald Trump, Joe Biden

Martin Luther King, leader della lotta non violenta per i diritti negli Usa e amico di Israele, fu ucciso nel 1968 dopo essere stato attaccato molte volte dall'ala violenta delle Pantere Nere di Malcolm X che rivendicava i diritti dei neri americani. Che oggi a riprendere il nome di King sia anche l'ala violenta di movimenti come "Black Lives Matter" è un insulto postumo a King e un rovesciamento fazioso della storia.
Come e perché Luther King sia stato ucciso, e da chi, non viene ricordato in nessun commento. Il Politicamente Corretto infetta la nostra informazione.

Ecco gli articoli:

Federico Rampini: "Trump contro Biden al via lo scontro finale"

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Federico Rampini

Chiuse le convention, la corsa alla Casa Bianca entra nel rettilineo finale. Tutto è possibile, anche quella rielezione di Donald Trump che fino a un mese fa appariva improbabile nei sondaggi. Economia e proteste violente sono, a sorpresa, i due assi nella manica del presidente in carica. Mancano poco più di due mesi al voto del 3 novembre, ma quest’anno oltre 80 milioni di americani potrebbero scegliere di votare per corrispondenza, e questo aggiunge un’incognita: tra rischi di ritardi postali, disguidi e inefficienze, con Trump che minaccia ricorsi per brogli. Le controversie sposterebbero il verdetto finale ben oltre la data canonica. I prossimi test saranno i duelli televisivi. Tra i due candidati alla presidenza i dibattiti sono fissati per il 29 settembre, il 15 ottobre e il 22 ottobre. Quello fra i vice, Mike Pence e Kamala Harris, il 7 ottobre. I due campi litigano perfino su questi appuntamenti. Trump ne voleva di più, perché è convinto di vincerli: «Sono piuttosto bravo in quella roba». La presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi, ha addirittura consigliato a Biden di rifiutarli tutti: «Non va legittimato un presidente così». Questo la dice lunga sul livello di lacerazione, di reciproco disprezzo: malattie che la democrazia americana cova da molto tempo. Altra battuta provocatoria di Trump: ha chiesto che Biden si sottoponga all’anti- doping prima dei duelli in tv, perché lo ha trovato «stranamente in forma» negli ultimi video-comizi. È un modo, non troppo sottile, di alludere al tallone di Achille dell’ex vice di Barack Obama: a 77 anni Biden ha solo tre anni più di Trump ma sembra molto più vecchio, non brilla per concentrazione e fluidità di discorso. Nei primi dibattiti per la nomination democratica apparve stanco e appannato. Non è detto che i duelli televisivi abbiano un impatto enorme. La leggenda vuole che John Kennedy abbia battuto Richard Nixon nel 1960 proprio grazie a una prestazione televisiva impeccabile; non ci sono molti altri casi dove il verdetto sia stato decisivo. I sondaggi nazionali danno un vantaggio di sette punti percentuali a Biden, in calo rispetto ai dieci di un mese fa. Ma la media nazionale è poco significativa. Trump vinse con una minoranza di voti popolari nel 2016. I suoi erano distribuiti “strategicamente” in modo più efficace: conquistò per minuscole frazioni percentuali diversi collegi elettorali, soprattutto negli Stati industriali del Midwest, mentre Hillary Clinton “sprecò” maggioranze ampie nei bastioni della sinistra come California e New York. Più che alla media nazionale bisogna guardare ai “battleground States”, gli Stati contesi, in bilico tra un candidato e l’altro. RealClearPolitics ne considera sei: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Florida, North Carolina, Arizona. In questi sei Stati da poche settimane Trump è tornato in testa con l’1,7% di scarto. È ancora entro il margine di errore statistico. E ci sono gli indecisi. Quali elettori devono convincere Trump e Biden? I primi tre Stati da conquistare sono zone industriali dove nel 2016 fasce di classe operaia bianca passarono a Trump dopo aver votato Obama nel 2008 e 2012. Gli altri tre Stati invece hanno importanti minoranze afro-americane e ispaniche. Il messaggio che Trump vuol far passare: «Ho difeso i posti di lavoro americani contro la Cina. E difendo i cittadini onesti contro le frange radicali che scatenano proteste violente». Biden punta sul disagio sociale, l’alta disoccupazione: la crescita dei primi tre anni di Trump è stata stroncata dalla depressione del coronavirus. Il democratico vuole convincere che questo presidente ha inasprito le tensioni razziali anziché unire il Paese. Biden deve tenere unito un elettorato molto più composito. La destra è tradizionalmente più disciplinata. A sinistra nel 2016 ci furono ampie defezioni verso l’assenteismo, perché una fascia radicale considerava Hillary troppo moderata, troppo establishment. Trump cerca di sfruttare i vantaggi dell’ incumbent , il presidente in carica, e al tempo stesso di rimanere l’outsider contro il «veterano della politica » Biden. È un esercizio di alta acrobazia, ma il trend dei sondaggi dice che non è impossibile: è solo molto difficile.

Anna Lombardi: "Il grido di Washington: 'Il sogno di King è vivo ma basta violenza' "

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Anna Lombardi

Ari Lesser - Martin Luther King Jr. - YouTube
Martin Luther King: "Quando si critica i sionisti le persone intendono gli ebrei. Questo è antisemitismo"

«Non era questo il mio sogno». C’è scritto proprio così sulle t-shirt con l’immagine del reverendo Martin Luther King, indossate dai ragazzi della Ebenezer Baptist Church, la sua chiesa di Atlanta. «Le abbiamo fatte perché 57 anni dopo, il suo sogno di una nazione dove non si giudica un uomo dal colore della pelle, non si è ancora avverato», dice Louise, i capelli raccolti in treccine, la mascherina rossa sul volto. È proprio qui, sulla scalinata del Lincoln Memorial, che il 28 agosto del 1963, l’allora leader del movimento per i diritti civili pronunciò il suo celebre “I have a dream”, ho un sogno, appunto, quello di un’America finalmente integrata. Ed è sempre qui che 57 anni dopo sono arrivati in 50mila da tutto il Paese. Per dire, ancora una volta, no al razzismo: con una manifestazione che nel pieno della pandemia prova a seguire le regole del distanziamento sociale e dei check per la temperatura. È stata la morte dell’afroamericano George Floyd, ucciso dal poliziotto che per otto lunghi minuti gli aveva tenuto un ginocchio sul collo, a convincere il reverendo Al Sharpton, icona black newyorchese, a lanciare la grande manifestazione nell’anniversario del discorso di King: «Proprio come allora, dobbiamo imporre al governo di cambiare la legge». Non immaginava certo, lo ripete dal palco, «che pure questa marcia sarebbe avvenuta in un momento drammatico. Nel pieno di una nuova rivolta, dopo il ferimento di Jacob Blacke a Kenosha». Quel nome, fa sussultare la piazza. Accanto ai fratelli di George Floyd, sulla scalinata, ci sono proprio il padre e lo zio di Jacob: a raccontare che il giovane ferito da un poliziotto con sette colpi alla schiena, «è paralizzato dalla cintola in giù, eppure lo tengono ammanettato nel suo letto d’ospedale». Solo poche ore prima, a meno di un chilometro da qui, Donald Trump ha accettato la nomination repubblicana sostenendo: «L’America non è soffocata dalle tenebre. È una fiaccola che illumina il mondo». Per una parte della nazione le cose, però, non stanno certo così. “Levate il ginocchio dal nostro collo” è il nome dato alla marcia: «E ci sentiamo davvero soffocare», dice Isha, 36 anni, arrivata da Fort Lauderdale, Florida, col marito e il fratello. «Viviamo nella paura, la nostra vita normale non somiglierà mai a quella dei bianchi. Ricordate Travyon Martin, ucciso solo perché indossava un cappuccio? », afferma mostrandoti poi sul cellulare il video appena diffuso da Kamala Harris, dove la candidata alla vicepresidenza sostiene: «Se i leader del 1963 ci fossero ancora, condividerebbero la nostra rabbia». Sul palco, nel frattempo, sale Martin Luther King III, figlio maggiore del reverendo: «Non ne possiamo più», tuona. «C’è un ginocchio sul collo della democrazia e la nazione non potrà sopravvivere a lungo senza l’ossigeno della libertà». Ripete i nomi dei troppi morti ammazzati dalla polizia: «Michael Brown, Eric Garner, Philando Castile...». Ma la speranza che aveva suo padre, non è ancora svanita. Il cambiamento è ancora possibile: «Si ottiene con qualcosa di più delle marce e dei discorsi retorici. Si ottiene quando è data a tutti la possibilità di votare... ». Anche per questo Sarah, 22 anni, studentessa di scienze politiche qui a Dc, si è dipinta la faccia di bianco scrivendosi “Vote” sulla fronte, «come gli attivisti della marcia di Selma, mezzo secolo fa. Anche io voglio ricordare che l’accesso al voto per noi neri resta ancora difficile», spiega. «No, non era questa l’America che Martin Luther King sognava. Ma quel sogno è ancora vivo. Per quel sogno continueremo a lottare».

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