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La Repubblica Rassegna Stampa
20.08.2020 Ponti segreti dietro all'accordo tra Emirati e Israele
Commento di Sharon Nizza

Testata: La Repubblica
Data: 20 agosto 2020
Pagina: 14
Autore: Sharon Nizza
Titolo: «Cibo e preghiere quei ponti segreti lanciati dagli ebrei negli Emirati»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/08/2020, a pag. 14, con il titolo "Cibo e preghiere quei ponti segreti lanciati dagli ebrei negli Emirati", il commento di Sharon Nizza.

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Sharon Nizza


Benjamin Netanyahu, Mohammed Bin Zayed

L’antico detto ebraico "due ebrei, tre opinioni" trova una sua emblematica affermazione persino in un luogo dove nell’immaginario collettivo non c’è nemmeno un ebreo, ovvero gli Emirati Arabi Uniti: anche nel Paese del Golfo che ha appena annunciato la normalizzazione dei rapporti con Israele, esistono non una, ma due comunità ebraiche. Ed entrambe hanno un curioso legame con l’Italia. Giacomo Arazi rappresenta la quintessenza di quell’ebraismo itinerante e cosmopolita che ha saputo reinventarsi tra una tappa e l’altra della vita. Nato a Beirut, cresciuto a Napoli, emigrato a Londra, nel 2008 si stabilisce per lavoro a Dubai. «All’inizio la mia famiglia era scioccata. La loro generazione vive ancora il grande trauma della fuga dai Paesi arabi a seguito della nascita d’Israele », ci racconta al telefono da Londra, dove è tornato a vivere dopo otto anni negli Emirati. A Dubai, incontra qualche collega ebreo e altri li scova cercando su Linkedin i cognomi che paiono famigliari. Inizia a ospitare nella sua villa la preghiera dello Shabbat per un gruppetto di famiglie di espatriati, europei e americani, che con gli anni arriva a includere un centinaio di persone.

«Con l’eccezione del Bahrain, siamo la prima comunità ebraica formatasi in un Paese arabo o musulmano dopo svariati secoli», ci spiega Alex Peterfreund, belga, a Dubai dal 2014, portavoce del Consiglio ebraico degli Emirati (JCE) – così si chiama la comunità formalizzata nel 2013, che continua a riunirsi nella ex villa di Giacomo. Un paio di anni fa è nata un’altra comunità, il Jewish Community Center, tra i cui pilastri c’è Ilan Uzan, italo-israeliano di origine libica, a Dubai dal 2004. Anche loro hanno la loro sinagoga e qualche anno fa Ilan ha coordinato un’operazione semi-clandestina per portare a Dubai un rotolo della Torà da Roma. L’apertura graduale verso la comunità ebraica locale è stata una sorta di banco di prova per ciò che il Paese si appresta ad affrontare con l’avvio delle relazioni con Israele. «Abbiamo rapporti con le istituzioni, in particolare con il ministero della Cultura e della Tolleranza, ma non ci occupiamo di politica. Le voci di un accordo con Israele circolavano da tempo, ma l’annuncio improvviso ci ha colti di sorpresa, pensavano che sarebbe successo tra qualche mese.

E’ l’inizio di una nuova coesistenza», ci dice Ilan. Non è sempre stato tutto rose e fiori. «Quando mia figlia è nata qui nel 2009, l’ho registrata come cristiana. Per anni non abbiamo rivelato quasi a nessuno la nostra religione. Quando c’è stato il caso Mabhouh (l’uccisione a Dubai di un capo di Hamas da parte del Mossad nel 2010, nrd) il clima era pessimo, abbiamo davvero temuto», ricorda Giacomo. Oggi negli Emirati si contano un migliaio di ebrei, quasi tutti a Dubai, dove c’è anche una piccola scuola di studi ebraici per i bambini della comunità e persino un catering kasher, "Kosherati", che spopola anche tra i musulmani. Ad Abu Dhabi è in costruzione una sinagoga, parte di un progetto iniziato nell’Anno della Tolleranza, dichiarato nel 2019 in vista della visita di Papa Francesco. La comunità degli expat di Dubai rievoca una storia che ha caratterizzato quest’area nel passato: di peregrinazioni di mercanti ebrei nel Golfo Persico, crocevia di commerci sulla via della seta, si ha testimonianza ancora dall’Alto Medioevo. Beniamino di Tudela, esploratore ebreo spagnolo dell’XI secolo, descrive nelle sue cronache le comunità locali. La piccola comunità del Bahrain di oggi, una trentina di persone, discende da famiglie di commercianti iracheni e iraniani stabilitesi a Manama verso la fine dell’800. I reggenti emiratini conoscono i vantaggi di un’apertura verso il mondo ebraico e probabilmente è anche in questa chiave che vanno letti i rapporti instaurati sottobanco con Israele già dagli anni ’90, con l’inizio del processo di Oslo. Non a caso il nome scelto per la nuova alleanza è "Accordo di Abramo", padre di Isacco e Ismaele, come a simboleggiare il rinnovo dell’antica fratellanza.

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