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La Repubblica Rassegna Stampa
09.08.2020 Troppo pessimismo non aiuta a migliorare la situazione
L'opinione di Abraham B. Yehoshua

Testata: La Repubblica
Data: 09 agosto 2020
Pagina: 10
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «La fratellanza perduta»

Riprendiamo da REPUBBLICA ROBINSON di oggi, 09/08/2020, a pag. 10 con il titolo "La fratellanza perduta" il commento di Abraham B. Yehoshua; a seguire, il commento di Fiamma Nirenstein del 27/11/2012, non è un errore, è l'anno in cui lo scrisse,la migliore risposta alle posizioni di Yehoshua. Lo ripubblichiamo dopo il pezzo di Yehoshua.

Se il governo di Israele in questi primi 72 anni di esistenza dello Stato avesse dato retta a intellettuali e scrittori, forse oggi avremmo uno Stato binazionale in cui l'identità ebraica sarebbe cancellata e sommersa oppure i terroristi al potere non solo a Gaza, ma anche in West Bank. Oggi l'analisi di Yehoshua è tutta volta al pessimismo e non tiene conto della forza e degli obiettivi raggiunti negli ultimi anni da Israele. Anche il presidente Rivlin ha ricordato agli israeliani il pericolo di una frattura dell'unità interna, usando però toni ben diversi e, soprattutto, con conclusioni piene di speranza.

Per chi volesse leggere tutti gli articoli di Yehoshua in cui espone le sue opinioni  degli ultimi 20 anni,su come Israele dovrebbe comportarsi, scrivere il nome 'yehoshua' nella finestra a destra in home page con il titolo "cerca nel sito".

Ecco l'articolo di ABY: 

Risultati immagini per Abraham B. Yehoshua
Abraham B. Yehoshua

At anti-Netanyahu protests, no clear leaders -- and that's how ...
Proteste contro Netanyahu in Israele

Yalla balagan - Forza, facciamo casino. Questo era il titolo dell'articolo di apertura del quotidiano della sinistra borghese Haaretz qualche giorno fa, che dava ampio spazio al resoconto delle sempre più imponenti manifestazioni (a frequenza quotidiana) davanti alla residenza del primo ministro Netanyahu a Balfour Street, a Gerusalemme. E la manifestazione del giorno dopo, in effetti, è stata dirompente, rendendo ancora più azzeccato il titolo. L'esclamazione Yalla balagan è composta da due parole: Yalla significa "su, dai, forza" in arabo, e balagan è un termine di derivazione russa che si potrebbe tradurre con "confusione, casino, bolgia". Tale esclamazione è tipica di giovani che intendono creare trambusto, caos, marasma, disordine, senza un obiettivo chiaro ma per pura protesta, per esprimere un dissenso talvolta intrinsecamente contraddittorio dietro il quale si cela una convinzione quasi ingenua che, dalla distruzione, possa nascere qualcosa di diverso e di sostanzialmente positivo. Le manifestazioni tenutesi in passato in Israele, come quella storica contro la guerra del Libano nel 1982 dopo il massacro perpetrato dalle falangi cristiane nei campi profughi palestinesi vicino a Beirut, hanno sempre avuto obiettivi chiari e mirati. Le attuali dimostrazioni contro il primo ministro, invece, analoghe ad altre in varie zone del mondo, non avanzano chiare proposte di cambiamento e sono in parte dovute alla disperazione, a una rabbia non sempre ben finalizzata- Sono la conseguenza di un cedimento dello spirito di solidarietà nazionale, ed è di questo spirito che vorrei parlare nel presente articolo. Io sono nato nel 1936, durante la rivolta palestinese contro il dominio britannico in Terra di Israele e, ovviamente, contro le comunità ebraiche che, all'epoca, contavano appena 400.000 anime. Fu quella un'insurrezione aggressiva, che aveva buone possibilità di successo ma che fallì a causa di dissidi interni allo schieramento palestinese. Durante l'assedio di Gerusalemme nella guerra di indipendenza del 1948, quando sette stati arabi invasero il neonato Stato di Israele per annientarlo, io e la mia famiglia trovammo riparo per circa due mesi in un rifugio antiaereo mentre i bombardamenti dell'artiglieria giordana distruggevano parte della nostra casa e ferivano nostro padre. Ciononostante - ed è questo che cercherò di sottolineare - io non persi fiducia nella nostra capacità di sopportare le difficoltà e di scongiurare il pericolo, grazie al profondo e sorprendente sentimento di solidarietà che contraddistingueva una popolazione composta da comunità provenienti da diverse parti del mondo che ancora non avevano una lingua comune. Una popolazione segnata da profondi e forti contrasti tra gruppi ideologici ed etnici, tra destra e sinistra, tra religiosi e laici, tra arabi ed ebrei, eppure solidale in un Paese che aveva appena iniziato a forgiare la sua identità. Malgrado le divergenze, le controversie, le contestazioni e gli odi, soltanto tre ebrei sono stati uccisi per motivi ideologici da loro connazionali nel corso dei settantadue anni di esistenza dello stato di Israele. Tra loro il primo ministro Yitzhak Rabin. Lo spirito di solidarietà nazionale, quali che fossero il suo prezzo e la sua natura, si è dimostrato l'arma più efficace contro i nemici esterni e un fattore moderatore nelle accese polemiche interne. Io ho 83 anni e non so se sia il coronavirus a influire sulla mia capacità di giudizio ma, per la prima volta in vita mia, ho timore che questo spirito di solidarietà (che, a mio giudizio, è stato una vera e propria fonte da cui lo stato di Israele ha attinto forza) si stia indebolendo. Sebbene Benjamin Netanyahu, durante i suoi lunghi anni di governo, non abbia risparmiato sforzi per minare il sentimento di fratellanza degli israeliani, la stangata economica inflitta dalla pandemia ha creato un'alleanza caotica tra la sinistra militante e centinaia di migliaia di disoccupati e di lavoratori autonomi che hanno perso attività e fonti di reddito e un simile caos, in un Paese piccolo e parzialmente binazionale come Israele, che mantiene uno stato di occupazione in Cisgiordania, combatte il terrorismo a Gaza e in Libano e cerca di contrastare la minaccia nucleare dell'Iran, non pub essere paragonato alla situazione della Danimarca, della Germania, e nemmeno della Spagna o dell'Ungheria, nazioni che cercano di contrastare, ognuna a modo proprio, l'eventuale terza o quarta ondata di contagi. Pertanto, per la prima volta nella mia lunga e movimentata esistenza, sono davvero preoccupato per il destino del mio Paese, che è la solida e autentica base su cui poggiano la mia vita e la mia identità. Il vero nemico dunque, al momento, non è il primo ministro Netanyahu, nonostante tutte le sue inique pecche, ma l'epidemia che non siamo ancora in grado di debellare e che non sappiamo cosa ci riservi in futuro. In questi giorni non abbiamo bisogno di manifestazioni caotiche e confuse ma di un rapido ripristino della vecchia solidarietà israeliana, dimostratasi tanto valida in passato, e di un'osservanza quasi militare delle regole di igiene nella lotta contro un virus per il quale l'umanità non è ancora riuscita a trovare un vaccino.

Riportiamo dal GIORNALE del 27/11/2012, a pag. 15, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "Caro Yehoshua, Hamas è terrorista", una risposta allo scrittore israeliano, sempre attuale:

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Fiamma Nirenstein


Aleph Beth Yehoshua è un grande scrittore e per me anche un amico di vecchia data. Ma della politica nonostante un suo antico libro molto interessante sul sionismo (Bouli, come lo chiamano tutti, è un vero sionista) edito dalla Giuntina, vede solo ciò che gli sembrano delineare i suoi sogni di grande artista. Così quando ieri sulla Stampa chiede a Israele di fare un accordo con Hamas, di nuovo fa gli stessi errori che ha fatto mille volte pensando che per fare la pace con il mondo arabo bastasse chiederlo per piacere, e farsi più in là. Per qualche ragione gli sfugge interamente l'elemento ideologico, che nel caso di Hamas è certamente il primo. Non è che Bibi Netanyahu, come piace dire a Yehoshua, abbia voluto chiamare Hamas «organizzazione terrorista» invece che «nemico», evitando così possibili accordi: no, Hamas è terrorista per definizione internazionale, l'Europa l'ha messa nella sua lista, così come gli Usa, non Israele. Hamas, che non è né uno «Stato» né un «nemico» come potevano esserlo Giordania o Egitto, ha come suo scopo scritto nella Carta cui è fedele (prego, prendetene visione, è una lettura affascinante nell'orrore) di distruggere Israele e di uccidere tutti gli ebrei, compreso quindi anche Aleph Beth Yehoshua. La Giordania non lo scrive nella Costituzione, e neppure la Siria e l'Egitto. Il loro comportamento può essere stato, nelle varie guerre, crudele, imperdonabile: ma nessuno degli Stati circostanti Israele ha come scopo principale di distruggerlo e di far fuori gli ebrei uno a uno, in tutto il mondo. Con loro dunque la pace si può fare. Hamas invece se non fa la guerra all'Occidente, se non proclama la sharia, se non insegna ai bambini a diventare shahid, non esiste. Il riconoscimento che Hamas vuole è la medaglia della leadership nella sharia, vuole che le visite dei capi di Stato proclamino al mondo intero il suo diritto a essere il migliore macellaio di Israele, non il suo eventuale partner. La richiesta di Bouli appare quindi come una medaglia che Hamas si appunterà sul petto per dire: vedete, quanta paura hanno gli israeliani che li facciamo a pezzi, persino Yehoshua ci chiede un accordo. Questo nella mentalità mediorientale è un danno grave, se hai paura sei morto, se richiedi la pace mentre l'altro ti dichiara guerra eterna non sei per loro che un vigliacco già in fuga. Sarebbe bello patteggiare con i palestinesi «una separazione ragionevole», ma quello che era possibile per re Hussein e per Sadat non lo è per Ismail Haniyeh o per Khaled Mashaal. Hamas non ha niente da guadagnare a chiedere «una separazione ragionevole», non gli interessano due Stati per due popoli. Bouli sa che non furono le elezioni che portarono Hamas al potere assoluto a Gaza, ma la guerra fra le due fazioni. Storicamente per i palestinesi, tutti, tanto forte è il rifiuto di considerare Israele un vicino ma di vederlo come un corpo estraneo, che anche l'Olp, prima di Arafat e ora di Abu Mazen, ha fatto fallire uno a uno tutti gli accordi tentati nel corso degli anni. L'Autorità Palestinese non cerca oggi di siglare un accordo che, dice piamente Bouli, non può firmare se non c'è Hamas: nemmeno loro, quelli dell'Anp, lo vogliono fare, figuriamoci Hamas. Perchè un Nuovo Medioriente c'è, sì, Bouli, all'orizzonte, ma è quello post 'primavere', in cui la Fratellanza Musulmana, di cui Hamas fa parte, persegue un califfato mondiale di cui Israele è il primo, più saporito boccone.

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