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La Repubblica Rassegna Stampa
09.08.2020 Libano: quale futuro?
Editoriale di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 09 agosto 2020
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Se il Libano ritrova il suo popolo»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 09/08/2020, a pag. 1, con il titolo "Se il Libano ritrova il suo popolo", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.

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Maurizio Molinari

Beirut, dalla Francia: «L'esplosione è stata un incidente». Ma il ...

La giornata della rabbia con la quale migliaia di libanesi hanno dimostrato contro i propri leader politici descrive il sentimento prevalente sulla devastante esplosione avvenuta i14 agosto nel porto di Beirut: il Paese dei Cedri è oramai diventato uno "Stato fallito" perché il governo non esercita la sovranità sul proprio territorio. Il potente fungo bianco-rosso, che ha ucciso oltre 150 persone, ne ha ferite almeno 5000 ed ha risvegliato l'incubo della guerra civile. è stato spiegato dal presidente Michel Aoun con l'esplosione di 2750 tonnellate di nitrato di ammonio che da sei anni erano conservate in un grande magazzino del porto. Il partito Hezbollah - maggiore forza politica del Paese - ha avvalorato questa versione e gli arresti domiciliari per i responsabili della sicurezza portuale hanno indicato che le indagini puntavano ad addebitargli gravi errori di manutenzione.

Questo tentativo di trovare subito una rapida e semplice risposta alla devastazione avvenuta è nato dalla volontà del governo di opporsi alla richiesta di una "commissione internazionale di inchiesta" avanzata da più leader politici nazionali — dal sunnita Saad Hariri al druso Walid Jumblatt — con il sostegno di Amnesty International. Ma l’effetto è stato opposto perché ha rafforzato il sospetto popolare che il governo stava tentando di coprire errori e corruzione. Per frenare lo scontento che montava il presidente Aoun ha corretto il tiro, avanzando l’ipotesi di "un attacco o un missile" ma la pur efficace carta del nemico esterno non è bastata questa volta ad evitare la rivolta di piazza. Perché la protesta è contro il sistema politico settario, che impone quote per ogni comunità (sciiti, sunniti, cristiani, drusi) e di fatto paralizza lo Stato, favorendo la crescita e il consolidamento di mafie settarie guidate da oltre 30 anni dagli stessi capibastone. E l’insoddisfazione popolare è radicata perché, numeri alla mano, l’economia del Libano si sta dissolvendo. Ad un anno dalle proteste contro l’incapacità del governo di raccogliere la spazzatura, il Covid 19 ha spazzato via ciò che restava delle rimesse degli emigrati e il sistema produttivo nazionale è in un vortice negativo evidenziato dall’aver mancato in marzo un pagamento di 1,2 miliardi di eurobond venendo meno a tutti gli obblighi conseguenti, inclusi i pagamenti di 2,7 miliardi di dollari in aprile e giugno. Beirut insomma ha registrato in marzo il primo, storico, default del debito sovrano e da maggio discute con il Fmi un piano per salvarsi dal baratro. Ma per farcela ha bisogno di drastiche riforme economiche e contro la corruzione. Il Fmi, la Banca Mondiale e più Paesi amici del Libano — anche europei — vogliono soccorrere Beirut. Ma non è facile. Anzitutto perché il Libano ha un problema che si chiama Hezbollah: è un partito politico che rappresenta l’etnia sciita e raccoglie molti consensi, ha propri eletti in Parlamento, controlla il ministero della Sanità ed è il principale attore dell’attuale coalizione di governo ma è anche un’organizzazione militare sostenuta dall’Iran che è stata designata "terrorista" da Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Canada, Lega Araba e Consiglio di cooperazione del Golfo. In questa cornice l’iniziativa del presidente francese Emmanuel Macron — sostenuta da Washington — di correre in soccorso del Libano è destinata a scontrarsi con gli stretti legami di Hezbollah con le istituzioni finanziarie nazionali. Senza contare che Hezbollah controlla ampie regioni del Libano, nel Sud come nella Valle della Bekaa, da dove tiene aperti, con i propri reparti, due fronti di iniziative militari: contro Israele ed a favore del regime siriano di Bashar Assad. Nel tentativo di evitare l’implosione economico-sociale del Libano, il direttore esecutivo del Fmi, Kristalina Georgieva, dopo la devastante esplosione nel porto si è impegnata ad «esplorare ogni strada per sostenere il popolo libanese» chiedendo però al premier Hassan Diab «di superare l’impasse sulle riforme per rilanciare l’economia», con un voluto riferimento alle accuse rivolte da molti Paesi donatori proprio ad Hezbollah di ostacolare i negoziati in atto. Come se non bastasse il 31 agosto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve rinnovare il mandato dell’Unifil, la forza di interposizione dei caschi blu presente in Libano su mandato della risoluzione Onu 1701 approvata 14 anni fa al termine del secondo conflitto fra Israele ed Hezbollah. Ed anche qui le scintille non mancano perché il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, chiede di trasformare l’Unifil in una «forza più agile e mobile con maggiori capacità di controllo» — aumentandone l’efficacia dell’interposizione lungo il confine fra Libano e Israele — ma la risposta di Hezbollah, dalle colonne di al-Akhbar è stata eloquente: «Guterres vuole che l’Unifil svolga opera di spionaggio contro la resistenza ma non lo permetteremo». Tali e tanti fatti dimostrano perché la giornata della rabbia di Beirut sia la cartina tornasole di un processo più ampio: il tentativo dei libanesi di ridare forza ed energia al proprio Paese. In attesa di sapere se ciò avverrà o meno possono esserci pochi dubbi sul fatto che in un mondo arabo dove il nazionalismo è in evidente affanno, quanto sta avvenendo a Beirut testimonia il legame profondo fra il popolo e lo Stato dei Cedri.

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