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La Repubblica Rassegna Stampa
18.07.2020 I 90 anni di Sami Modiano
Analisi di Umberto Gentiloni

Testata: La Repubblica
Data: 18 luglio 2020
Pagina: 37
Autore: Umberto Gentiloni
Titolo: «Novant’anni di speranza»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 18/07/2020, a pag.37, con il titolo "Novant’anni di speranza" l'articolo di Umberto Gentiloni.

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Umberto Gentiloni

Giorno della Memoria. La testimonianza di Sami Modiano - Vatican News
Sami Modiano

Compie novant’anni Sami Modiano, la sua biografia ha attraversato un lungo tratto del secolo scorso. Nasce nell’isola di Rodi il 18 luglio 1930, quando il Dodecaneso era italiano. Sami studia con passione e dedizione, è uno dei più bravi della classe, frequenta la scuola elementare maschile. «L’anno scolastico era appena iniziato quando una mattina il maestro mi chiamò. Ero contento, mi ero preparato all’interrogazione, convinto che mi avessero chiamato per questo. Invece mi disse che ero stato espulso. Non capii, rimasi senza parole. Mi mise una mano sulla testa dicendomi che mio padre mi avrebbe spiegato i motivi. Ricordo come fosse oggi la mano sul capo, il tentativo di rassicurarmi e la successiva conversazione con mio papà che mi parlò di Mussolini e dell’esistenza di una razza ebraica di cui facevamo parte. Ero troppo piccolo per capire. Fino a quel momento ero contento, libero, sereno. Non mi sentivo diverso dagli altri bambini, dai miei amici. Ora era finita l’infanzia. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La sera mi addormentai come un ebreo».

Attimi scolpiti nella memoria in un tornante della sua esistenza. Quel bambino viene catapultato in una nuova realtà, nelle tenebre del Novecento. Deportato insieme a tutta la comunità di Rodi il 23 luglio 1944, destinazione Auschwitz, nel viaggio più lungo tra i percorsi senza ritorno: arrivo il 16 agosto. Quasi un mese attraverso l’Europa nel vivo della fase decisiva dell’offensiva Alleata al cuore del terzo Reich. Ebrei, italiani scovati e catturati in un’isola, a ridosso della costa turca, quando già Roma era in mano agli anglo americani, Minsk presa dai sovietici, il campo di sterminio di Majdanek a Lublino appena liberato. La guerra di Hitler si stava trasformando in una sconfitta, una resa incondizionata. Eppure la macchina dello sterminio non si inceppa, non conosce ostacoli, prosegue il suo cammino di morte e terrore. Poche decine i sopravvissuti, su quasi duemila deportati. Sami, non ha ancora quindici anni, si ritrova solo al mondo, riesce a riprendere un cammino di vita, prima alle porte di Roma, poi in Congo belga per tornare a Rodi molti anni dopo quando l’isola delle rose aveva persino cancellato le tracce dell’antica comunità. Nel lungo dopoguerra ha diviso il suo tempo restando vicino al mare: a Ostia d’inverno e a Rodi d’estate in una lunga stagione dove si occupa delle visite alla sinagoga e al museo, come memoria e voce di una presenza cancellata ( Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz- Birkenau e altri esili , Rizzoli 2013). Un testimone infaticabile che si muove tra scuole, università, viaggi della memoria nei luoghi della sua deportazione, dove ha perso gli affetti più cari. «Quest’anno non ci muoviamo da casa, troppo rischioso alla mia età, parlo volentieri al telefono». Sami e Selma, preziosa compagna di una vita, cercano di evitare contatti con l’esterno osservando il mondo nell’era del Covid 19, anche oggi che il virus sta apparentemente regredendo. La quotidianità di tutti è travolta e ridisegnata. «Il venerdì sera accendiamo una candela, preghiamo anche per chi è stato ucciso dal virus, per chi non ce l’ha fatta ed è stato portato via senza un ultimo saluto. Penso ai camion con le bare, ai trasporti continui di corpi senza vita, al coraggio di medici e infermieri». Per chi ha vissuto da ragazzo la tragedia di una guerra, la deportazione, mesi in un campo di concentramento ogni richiamo al passato rischia di essere retorico o inefficace. Il pensiero di Sami Modiano volge verso la quotidianità, la ricchezza di gesti e comportamenti che lo circondano. «Se mi guardo intorno vedo tanto affetto, una profonda fratellanza. C’è chi ci chiede al citofono cosa vogliamo mangiare, ci porta la spesa o ci offre parte del loro pranzo. Sono persone che conosciamo, che abbiamo conosciuto in questi anni. Ma tanti si offrono, fanno un gesto, tendono la mano. È una sensazione bellissima, un condominio, un palazzo che si ritrova per farsi forza, un segnale che va al di là del tempo mette in relazione generazioni diverse attraversate dalle stesse paure». Ne parla come se volesse mostrare ciò che i suoi occhi vedono ogni giorno: dalle finestre, dall’angolo di strada che meglio frequenta, dalle tante telefonate che riempiono ore e settimane di quarantena. «Mi mancano gli incontri con i ragazzi, le mattinate nelle scuole, le possibilità di riconoscere volti e sorrisi di tanti. Ma aspetto fiducioso, verranno tempi migliori per poter riprendere un cammino interrotto. Non so se sia giusto parlare di guerra, non lo credo. È un’esperienza troppo diversa, unica, il nemico è invisibile e sconosciuto. Per me una nuova esperienza che si aggiunge alle altre che ho attraversato: c’è sempre da imparare, sono convinto che potremo fare tesoro di queste settimane di clausura e solitudine. Non dobbiamo scordarci di chi si è sacrificato anche per noi e la nostra salute, né dimenticare cosa significa dare una mano, prestare aiuto a chi ne ha più bisogno». Un monito che va al di là delle strane giornate che stiamo vivendo, fino a diventare uno sguardo sulla biografia di un sopravvissuto alla Shoah che passa le novanta primavere: «Gli ultimi decenni della mia vita sono stati ricchi, felici, pieni di speranze e di incontri. Non mi immaginavo il dolore di questi mesi e le domande su cosa ci attende quando metteremo il naso fuori di casa. Tutto sommato rimango ottimista, penso spesso a un detto sefardita dei nostri padri, una sorta di proverbio nella lingua ladina, andiamo avanti Caminando y hablando ».

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