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La Repubblica Rassegna Stampa
09.02.2020 Come trasformare un ottimo libro in una predica sbagliata
Recensione di Luca D'Andrea a 'Violette di marzo', di Philip Kerr

Testata: La Repubblica
Data: 09 febbraio 2020
Pagina: 14
Autore: Luca D'Andrea
Titolo: «Siamo come nella Berlino del 1936»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA - Robinson di ieri, a pag.14, con il titolo "Siamo come nella Berlino del 1936" la recensione di Luca D'Andrea.

In altra pagina oggi su IC la recensione al libro di Diego Gabutti.

Esce su Robinson, il magazine letterario di Repubblica, una stupefacente recensione di Violette di Marzo, trasformato dal recensore, Luca d’Andrea, in una sorta d’editoriale «sardinista» à la Concita De Gregorio. Sembra di sognare, ma il romanzo di Philip Kerr, ora che un giornale taumaturgo gli ha imposto le mani, non dev’essere più letto per quel che è, cioè come un pulp hard-boiled sulla Germania nazista, dove Hitler è il cattivo e i buoni finiscono morti o nei lager. No, grazie all’illustre recensore, Violette di Marzo è da oggi una coraggiosa denuncia (tipo una sfuriata progressista negli studi di qualche talk show) degli slogan sovranisti del genere «american first» o «prima gl’italiani». Degradato da romanzo a predicozzo, Violette di Marzo diventa una «lettura intelligente», come immagino si dica dalle parti di Repubblica. Anche sotto Hitler, ragiona (si fa per dire) il recensore, venivano «prima i crucchi», come oggi sotto Trump negli Stati Uniti e sotto Salvini in Italia (se non l’avessero fermato Di Maio, Zingaretti e Conte) vengono prima gli autoctoni. Citofoni e soluzione finale, dazi e guerra-lampo: c’est la même chose. Nostradamus del poliziesco, Kerr sapeva fin dal 1989, quando il suo romanzo uscì in prima edizione, che Trump e Salvini presto sarebbero discesi in terra dal mondo della luna. Che dire? Come sotto il Soviet supremo, e per l’appunto sotto Hitler, due regimi in cui manipolare la letteratura e farne strumento di propaganda era pratica comune, ci stiamo hitlerizzando e bolscevizzando — grazie a Robinson e Repubblica – anche in Italia. Salute a noi. [Diego Gabutti]

Ecco l'articolo:

Risultato immagini per Violette di marzo fazi

Era il lontano 1989 quando Violette di marzo di Philip Kerr faceva la sua prima comparsa nelle librerie e oggi, per nostra fortuna, Fazi Editore lo ripropone nella traduzione di Patrizia Bernardini. Trentuno anni non sono uno scherzo, ci sono libri di autori ben più blasonati che non hanno retto anni all'urto del tempo, mentre Violette di marzo si dimostra una lettura fresca e quasi inquietantemente attuale. Le Violette di marzo del titolo fanno riferimento a quei tedeschi che, all'ultimo momento, per convenienza personale o per acquisire maggiore prestigio, peso sociale, economico e politico, si accodarono al tragico e delirante carrozzone del partito nazista in uno dei momenti cruciali della sua esistenza. Siamo nel 1936 e il nazionalsocialismo, dopo aver bruciato il Reichstag e infiltrato ogni recesso dell'apparato tedesco (in primis, ovviamente, la polizia), deve riuscire a Il continuo riferimento alle merci prodotte in patria prima fa sorridere, poi mette i brividi mantenere segrete le manovre che porteranno alla Seconda guerra mondiale (la creazione di una forza aerea militare e la costruzione dei primi campi di concentramento). E ha anche l'assoluta necessità di offrire uno spettacolo di sé che cancelli la violenza quotidiana ai danni dei "non-tedeschi" e la alla persistente crisi economica che, aumentando a dismisura il divario fra ricchi e poveri, rischia di trasformarsi in un boomerang. L'occasione furono le famose Olimpiadi del '36, una vetrina di assoluto prestigio per mostrare la forza e la modernità del nascente del Reich millenario. Fa qui la prima comparsa il detective (ex Kripo, cioè ex commissario della polizia criminale) Bernie Gunther che Philip Kerr userà come personaggio ricorrente per tutta la cosiddetta "trilogia berlinese" e per svariati romanzi legati al periodo post-bellico. Bernie Gunther è il prototipo del detective privato all'americana. Un po' Marlowe, un po' Sam Spade, non crede più a nulla se non al denaro e di denaro Hermann Six, magnate dell'acciaio e padre della povera Grete, uccisa con il marito Paul nel talamo nuziale, ne ha a palate. Denaro e segreti. Perché, per quanto possa sembrare strano (e alle orecchie di Bernie Gunther suona parecchio strano), l'uomo non cerca giustizia per la morte della figlia e del genero, ma vuole che all'insaputa della Kriminal Polizei (e quindi del Partito), il detective ritrovi una collana di diamanti trafugata durante il duplice omicidio. Herr Six paga bene, paga in contanti e Bernie Gunther non sa di essere un personaggio creato da Philip Kerr, cioè uno dei più abili scrittori di crime storici degli ultimi decenni. Con grazia non priva di ironia la narrazione procede costringendo il lettore nell'abisso che il detective dovrà illuminare pur di appurare una verità fatta di doppi e tripli giochi, agguati, e la martellante, onnipresente propaganda del regime. È qui che Violette di marzo dimostra di non essere invecchiato di un secondo, ma di avere un'inquietante capacità di risuonare non solo attuale, ma addirittura contemporaneo. Ogni cosa, nella Berlino del 1936 (e Bernie Gunther ce lo fa notare con un sarcasmo che con lo scorrere delle pagine rasenta il panico - suo e del lettore accorto) è "tedesco". È scritto dappertutto. Sulle targhe dei professionisti "avvocato tedesco", "dentista tedesco", "calzolaio tedesco", ma anche sui prodotti commerciali "patate tedesche", "abiti tedeschi" e via dicendo con un'ossessività che dapprima fa sorridere, ma che poi diventando macabro mantra fa venire i brividi. È il segreto dei buoni noir storici: raccontare vicende che rispecchino il presente ambientandole in un passato più o meno simile. Non era così anche l'Occidente del 1989? Talmente spaventato da sé stesso da imporre il marchio "made in Usa" in ogni dove? Più di ogni analisi credo che a esplicitare al meglio la forza corrosiva di questo piccolo gioiello debba essere la viva lingua dell'autore e dei suoi personaggi. Ecco uno scambio di battute. «"Ascolti, Frau Protze" dissi, "ebrei zingari, pellerossa, sono tutti uguali per me. Non ho nessun motivo per amarli, ma non ne ho neppure per odiarli. Quando entra da quella porta, un ebreo riceve lo stesso trattamento di chiunque altro. Proprio come se fosse il cugino del Kaiser. Ma questo non significa che mi interesso del loro benessere. Gli affari sono affari". "Certamente" disse Frau Protze, arrossendo leggermente. "Spero non pensi che io ce l'abbia con gli ebrei". "No, naturalmente" risposi. "Ma è quello che dicono tutti. Perfino Hitler"». Prima del risuonare degli scarponi chiodati delle immense marce militari, prima ancora delle voci stentoree attraverso le radio di tutta la Germania, è fra le chiacchiere dell'uomo comune, fra quelle minuscole banalità ripetute milioni di volte che si cela l'orrore. La freschezza di questo Violette di marzo sta nel passare con nonchalance dal martellante "fabbricato in Germania" del 1936 all'asfissiante "made in Usa" del 1989 per approdare come una parabola che solo i grandi romanzieri sanno imbastire, fino all'ossessione del made in Italy del 2020, che rimbalza dagli ingredienti dei panettoni, alle mutande del mercato, dagli spot televisivi alle canzonette, serpeggiando fra quelle chiacchiere da bar (o da social) di poco conto che, ci dice Kerr, tanto di poco conto non sono.

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