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La Repubblica Rassegna Stampa
26.03.2019 Su Repubblica i pezzi di Davide Lerner, Vittorio Zucconi per demonizzare Israele
La realtà rovesciata sul quotidiano sempre più inattendibile

Testata: La Repubblica
Data: 26 marzo 2019
Pagina: 13
Autore: Davide Lerner - Vittorio Zucconi
Titolo: «Nel Golan che Trump assegna a Israele: 'Ma noi ci sentiamo più siriani' - L'azzardo di Netanyahu e Trump»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/03/2019, a pag.13 con il titolo "Nel Golan che Trump assegna a Israele: 'Ma noi ci sentiamo più siriani' ", il commento di Davide Lerner; a pag. 1-25, con il titolo "L'azzardo di Netanyahu e Trump", il commento di Vittorio Zucconi.

Ecco gli articoli, preceduti dai nostri commenti:

Davide Lerner: "Nel Golan che Trump assegna a Israele: 'Ma noi ci sentiamo più siriani' "

L'articolo di Davide Lerner disinforma perfino prima di cominciare, poiché segnala il luogo da cui scrive l'inviato di Repubblica come "Golan occupato", mentre si tratta di Israele a tutti gli effetti. L'immagine complessiva che viene delineata dalla lettura dell'articolo è quella di un gruppo etnico - i drusi israeliani - compattamente ostile al proprio Paese (che è appunto Israele). La realtà è diversa, perché da sempre i drusi sono stati fedeli al Paese in cui risiedono: a Israele quelli israeliani, alla Siria i siriani e al Libano i libanesi. In Israele molti drusi svolgono regolarmente il servizio militare, spesso nei reparti d'elite e alcuni di loro svolgono ruoli importanti negli alti comandi dell'esercito. Ma tutto questo viene "omesso" da Lerner, figlio di cotanto padre.

Ecco il pezzo:

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Davide Lerner

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Drusi israeliani

«La Siria è la nostra identità, la nostra storia, la nostra cultura, le nostre canzoni», dice il cinquantaquattrenne Sameh Ayoub, druso del Golan, fumando una sigaretta con gli occhi puntati oltre il filo spinato verso Damasco, sua città natale. Nella giornata della cerimonia con cui, alla presenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente statunitense Donald Trump ha ufficializzato il riconoscimento delle alture del Golan siriano come territorio israeliano, legittimando l’occupazione seguita alla guerra del 1967 e l’annessione di fatto del 1981, un gruppo drusi di Majdal Shams è sceso lungo il pendio che dal centro del villaggio porta alla "Valle delle grida". Per decenni, i drusi siriani di questi altipiani frontalieri sotto controllo israeliano si sono ritrovati qui, all’estremità invalicabile del paese più grande e scosceso del Golan, per scambiarsi le ultime coi familiari rimasti dall’altra parte della linea del fronte. Le grida di Sameh Ayoub, che non vede il fratello da un viaggio in Grecia nel 1984, raggiungono i siriani riuniti sul cocuzzolo dalla parte opposta, forti del riverbero della famosa eco. «Come state Al shabaab?», ragazzi, urla, con alle spalle le vette del Golan ancora innevate. «Tornare alla valle delle grida è una reazione istintiva alla firma di Trump», racconta Ayoub, dopo una manifestazione in centro in cui 300 abitanti locali hanno sventolato bandiere della Siria e qualcuna di Assad. «È una tradizione ormai pressoché estinta, fra messaggistica moderna e anni di guerra civile siriana, ma che rabbia quella sceneggiata alla Casa Bianca», dice. Sullo smartphone rimbalzano le foto della conferenza stampa di Netanyahu e Trump a Washington, con tanto di foto congiunta con la proclamazione e bacio fra i due. «Noi siamo e ci sentiremo sempre siriani», dice in un ebraico dal forte accento arabo, la sua lingua madre. «Il presidente degli Stati Uniti non può decidere per tutto il mondo, e tanto meno per noi che siamo i diretti interessati». Il tweet con cui Trump giovedì scorso aveva anticipato la decisione, aveva subito provocato una levata di scudi sul piano internazionale, con le condanne di Europa, Russia, palestinesi e siriani. Ma la battaglia più dura per Israele è sul fronte interno: ci sono 25mila apolidi sulle alture del Golan che dopo mezzo secolo storcono ancora il naso quando gli chiedi se pensino, un giorno, di accettare la cittadinanza israeliana. «È indubbio che ci renderebbe la vita più facile», confessa Ayman Abu Jable, che è nato proprio nel 1967 ed è il redattore di un giornale locale. «Con il nostro teudat maavar, certificato di passaggio, è più difficile viaggiare e navigare le burocrazie israeliane. Ma siamo siriani di religione drusa, non ci interessa diventare cittadini di serie C in Israele. È ovvio che oggi non ci piacerebbe essere coinvolti nella guerra siriana o essere sotto quel criminale di Assad, ma sono solo delle contingenze», conclude in una Majdal Shams nuvolosa costellata delle bandiere multicolore dei drusi. Ad oggi, soltanto il 12 per cento dei drusi del Golan ha accettato la cittadinanza israeliana. Non è un segreto che le nuove generazioni siano più possibiliste dei nonni e dei padri: fra il 2015 e il 2017 l’Autorità israeliana per la popolazione e immigrazione ha segnalato un aumento delle richieste di cittadinanza da una media di una ventina l’anno a oltre un centinaio. Ma sono cifre minime che spesso infastidiscono i giovani locali. «Sono numeri falsi messi in giro dai media israeliani», dice Wesam Sharaf, un avvocato 25enne di Ein Kinya, uno dei quattro villaggi drusi insieme a Masadeh, Buqata e Majdal Shams. «Israele è uno stato di apartheid, preferisco stare in un posto dove mi si considera uguale». Secondo i locali la proclamazione va letta in continuità con il riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale di Israele, che sembra trovare nella Romania un proselita europeo. Israele, memore dei continui attacchi dell’artiglieria siriana sulle comunità di confine fra la guerra d’indipendenza e il 1967 («una generazione di bambini israeliani è cresciuta in costante pericolo», ha detto Netanyahu alla Casa Bianca), considera le alture militarmente strategiche e vuole legittimare il proprio controllo approfittando del conflitto siriano. Lo scorso autunno, per la prima volta dal 1967, sono state indette elezioni locali nei villaggi drusi, finora gestiti per mezzo di nomine del governo centrale. «Potrei quantificare l’affluenza usando le dita delle mani, la pressione sociale per il boicottaggio era troppo forte», dice amara Samira Rada-Amran, anche lei del villaggio di Ein Kinya. Aveva deciso di candidarsi dopo aver abbandonato il revanchismo siriano del padre e sposato, con il nuovo marito, l’atteggiamento filo-israeliano dei drusi della Galilea. «È un inizio, la prossima volta andrà meglio», dice, «È ora di dimenticare la Valle delle grida e ritornare alle nostre vite reali».

Vittorio Zucconi: "L'azzardo di Netanyahu e Trump"

Donald Trump ha più volte affermato il diritto di Israele all'autodifesa ecco il video (https://www.youtube.com/watch?v=8oGIDzKXMcE). Oggi Vittorio Zucconi si scaglia contro il Presidente americano e contro Netanyahu - definito "socio" di Trump, un termine mafioso. Invece di ricorrere ad argomenti efficaci, Zucconi preferisce le definizioni a effetto che ridicolizzano gli avversari. Trump e Netanyahu sono perciò "i due signori del Risiko senza fine israelo palestinese" e dispongono di "una forza per ora incontrollata", "ruzzolano lungo il sentiero della tracotanza". Un articolo, insomma, che non è altro che una serie di insulti. Degno di essere pubblicato sul quotidiano più ostile alla verità che esca in Italia.

Ecco il pezzo:

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Vittorio Zucconi

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Donald Trump, Benjamin Netanyahu

Con la benedizione di un Trump ringalluzzito dall’apparente scampato pericolo del Russiagate e con la maledizione dei razzi di Hamas lanciati su Israele, il " socio" israeliano del presidente Usa scatena l’offensiva elettorale su Gaza e lascia Washington di corsa per curare i propri interessi politici. Ora che Trump ha proclamato la sovranità di Israele sulle alture del Golan occupate dal 1967, in disprezzo di ogni risoluzione Onu, e Netanyahu è impigliato in inchieste e incriminazioni per corruzione e tangenti, i due signori del Risiko senza fine israelo palestinese si sentono liberi di buttare all’aria ogni residua speranza di negoziati e soluzione, incoraggiati dai razzi di Hamas e indifferenti alle condanne internazionali. " Bibi" e il " Don" sono da sempre in perfetta sintonia nel loro giocare d’azzardo forzando, uno a cannonate, l’altro a bordate di tweet, i confini di quella sterile prudenza e di quella esitante strategia che da anni non produce pace o soluzioni, ma ha almeno contenuto conflitti allargati. Per cinismo politico Netanyahu, deciso a tutto per proteggersi la poltrona dall’insidia di un avversario pericoloso alle elezioni di aprile, e per garrula incoscienza e felice ignoranza il socio americano che si muove nel mondo come il proverbiale elefante in cristalleria, i due leaders camminano di pari passo dal riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana verso il vuoto. La loro forza, per ora incontrollata, è la completa assenza di conseguenze, è la inesistenza di chi, come l’Europa vaporizzata, la Cina in altri affari indaffarata, l’Onu irrilevante dovrebbe rappresentare un contrappeso alla prepotenza dell’uno e alla spregiudicatezza dell’altro, come impotenti sono a portare Hamas alla rinuncia ad azioni provocatorie che non servono ad altro se non a dare apparente copertura alle pesantissime rappresaglie dell’Idf, la forza armata israeliana. Lamentare la insostenibile leggerezza di Trump nel demolire il ruolo internazionale degli Usa ormai schierati o condannare la rinuncia di Netanyahu a ogni finzione di negoziato è pura ipocrisia. La forza dei due soci del Risiko è la debolezza degli altri giocatori. Debolezza alla quale va assommata l’indifferenza di opinioni pubbliche in tutto l’Occidente incapaci di mobilitarsi per altre cause che non siano la miopica difesa del proprio confine, magari da pattuglie di disperati naufraghi, sensibile soltanto alla sirena di un "sovranismo" che dovrebbe proteggerle da ogni ricaduta internazionale delle crisi croniche come quella medio orientale. Fra l’incantesimo del "terrorismo fondamentalista" che ha risucchiato ogni altra preoccupazione e l’ illusione di potersi tirare le coperte dei propri sacri confini sugli occhi, la "gente" ha da tempo smesso di occuparsi d’altro che non siano malesseri e disagi immediati. Il fatto che l’occupazione dei territori attribuiti ai palestinesi rimanga la ferita iniziale e purulenta nel conflitto con il mondo arabo è ormai lontano e irrilevante, spesso anche per le stesse nazioni arabe, e in special modo l’Arabia Saudita fissata nell’incubo dell’Iran e incoraggiata da Trump ossessionato dal vecchio, nuovo Satana. " Bibi" non ha più altri limiti internazionali, ora che gli Stati Uniti hanno rinunciato al ruolo classico dell’Honest Broker, del mediatore onesto e la sua preoccupazione può concentrarsi sulla rielezione a rischio, ora non più soltanto politico, ma giudiziario. Trump non ha limiti perché non ha limiti e ora si crede anche definitivamente riscattato da sospetti di azioni criminali. I due soci ruzzolano lungo il toboga della propria tracotanza e dell’indifferenza altrui. Soltanto la democrazia israeliana, ferita ancora da lui stesso se le inchieste sono fondate e dai razzi di Hamas, e la democrazia americana, paralizzata nella ricerca di soluzioni giudiziarie al problema politico Trump, come fu l’Italia con Berlusconi, potrebbero fermarli e riportarli sulla via della ragione.

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