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La Repubblica Rassegna Stampa
14.03.2019 Donne sottomesse all'islam dall'Iran all'Arabia Saudita. La 'memoria corta' di Emma Bonino
Intervista di Gabriella Colarusso, commenti di Francesca Caferri, Emma Bonino

Testata: La Repubblica
Data: 14 marzo 2019
Pagina: 17
Autore: Gabriella Colarusso - Francesca Caferri - Emma Bonino
Titolo: «'Nessun patto con l’Iran l’Europa si mobiliti per mia moglie Nasrin' - A processo le attiviste per i diritti delle donne: 'Non lasciatele sole' - Solo la piazza fa paura ai regimi»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/03/2019, a pag.17, con il titolo 'Nessun patto con l’Iran l’Europa si mobiliti per mia moglie Nasrin' l'intervista di Gabriella Colarusso; con il titolo "A processo le attiviste per i diritti delle donne: 'Non lasciatele sole' ", il commento di Francesca Caferri; con il titolo "Solo la piazza fa paura ai regimi", il commento di Emma Bonino.

In tutto il mondo islamico le donne sono sottomesse e private di diritti. La differenza tra Iran e Arabia Saudita è però che nel Paese degli ayatollah la condizione delle donne è sempre peggio, mentre in Arabia è stato intrapreso un percorso di riforme.

Emma Bonino chiede il rispetto dei diritti delle donne in Iran, ma "dimentica" che, quando era alla Farnesina, si è recata in Iran con il capo coperto dal velo per compiacere gli ayatollah, esattamente come Federica Mogherini. Non serve scagliarsi contro la "realpolitik alla quale non bisogna adeguarsi" in nome del rispetto dei diritti umani se poi quando si ha la possibilità di cambiare qualcosa si evita di farlo.

Ecco gli articoli:

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Gabriella Colarusso: 'Nessun patto con l’Iran l’Europa si mobiliti per mia moglie Nasrin'

Le hanno impedito di farsi difendere da un avvocato di sua scelta: si è rifiutata di sceglierne uno nella lista di quelli imposti dall’autorità giudiziaria, rivendicando il diritto a una difesa indipendente. Anche per questo Nasrin Sotoudeh, 55 anni, tra le più note avvocatesse iraniane per i diritti umani, premio Sakharov nel 2012 del Parlamento europeo, è considerata colpevole di «un atto criminale». Dal 13 giugno del 2018, Sotoudeh è detenuta nel carcere di Evin, a Teheran. Il 9 febbraio le hanno comunicato che dovrà scontare 38 anni di prigione e 148 frustate. Processo e verdetto “in absentia”: non erano presenti né l’imputata né l’avvocato. La colpa di Sotoudeh è aver difeso le donne che protestavano contro il velo obbligatorio, i prigionieri politici, gli attivisti per i diritti umani. Una “minaccia” per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Amnesty international ha definito la condanna «oltraggiosa» e ha avviato una campagna per chiedere la sua liberazione, ma «se le autorità iraniane non sentiranno la pressione della comunità internazionale non la rilasceranno», dice Reza Khandan, il marito di Sotoudeh, a cui è toccata una sorte simile: arrestato a settembre, rilasciato a gennaio. Su di lui ancora pendono diversi capi di accusa. Come ha saputo della condanna di Sotoudeh? «Mi ha chiamato lei il 9 febbraio, una telefonata breve. Il giorno dopo, il 10, sono andato in carcere e mi ha detto che era stata condannata a 33 anni di prigione e 148 frustate in un secondo processo. È stata l’ultima volta che l’ho vista». Come si sentiva? «Emotivamente mi sembrava stesse bene, è forte. Fisicamente era provata, debole dopo lo sciopero della fame che ha fatto quando mi hanno arrestato. Le consentono telefonate molto brevi e visite di soli 20 minuti una volta a settimana, due volte per i nostri figli. Ma da quando è stata arrestata le hanno negato due volte di vedere i familiari». Come vengono trattati i detenuti di Evin? «Il 10% circa sono detenuti politici, avvocati per i diritti umani, difensori dei diritti delle donne e sono trattati in modo estremamente duro. Vengono bendati ogni volta che lasciano la cella, anche quando vanno in bagno. La sezione femminile della prigione è piccola e le donne non hanno libero accesso al telefono come i detenuti uomini: possono fare solo brevi telefonate». Le forze di sicurezza hanno fatto pressioni sulla vostra famiglia, i vostri amici? «Un nostro amico, l’attivista per i diritti umani Farhad Meysami è stato arrestato in parte anche per il lavoro che fa con Nasrin. Io sono stato arrestato per Nasrin. Alcuni nostri amici sono stati minacciati e interrogati, è stato detto loro di prendere le distanze dalla nostra famiglia. L’intelligence ha perquisito la casa di mia sorella e ha interrogato suo marito. In prigione temevo che avrebbero preso di mira i nostri figli». Sotoudeh ha un avvocato? «Non le è stato permesso di vedere nè di mantenere il suo avvocato. Hanno provato a obbligarla a sceglierne uno da una lista di 20 approvata dalle autorità giudiziarie ma si è rifiutata». Che cosa pensa che succederà ora? «Se le autorità iraniane non sentiranno la pressione internazionale non la rilasceranno. L’Europa, che fa accordi con l’Iran di diverso tipo, deve assumersi le sue responsabilità fino in fondo: la questione dei diritti umani non può passare in secondo piano».

Francesca Caferri: "A processo le attiviste per i diritti delle donne: 'Non lasciatele sole' "

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Francesca Caferri

Le hanno impedito di farsi difendere da un avvocato di sua scelta: si è rifiutata di sceglierne uno nella lista di quelli imposti dall’autorità giudiziaria, rivendicando il diritto a una difesa indipendente. Anche per questo Nasrin Sotoudeh, 55 anni, tra le più note avvocatesse iraniane per i diritti umani, premio Sakharov nel 2012 del Parlamento europeo, è considerata colpevole di «un atto criminale». Dal 13 giugno del 2018, Sotoudeh è detenuta nel carcere di Evin, a Teheran. Il 9 febbraio le hanno comunicato che dovrà scontare 38 anni di prigione e 148 frustate. Processo e verdetto “in absentia”: non erano presenti né l’imputata né l’avvocato. La colpa di Sotoudeh è aver difeso le donne che protestavano contro il velo obbligatorio, i prigionieri politici, gli attivisti per i diritti umani. Una “minaccia” per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Amnesty international ha definito la condanna «oltraggiosa» e ha avviato una campagna per chiedere la sua liberazione, ma «se le autorità iraniane non sentiranno la pressione della comunità internazionale non la rilasceranno», dice Reza Khandan, il marito di Sotoudeh, a cui è toccata una sorte simile: arrestato a settembre, rilasciato a gennaio. Su di lui ancora pendono diversi capi di accusa. Come ha saputo della condanna di Sotoudeh? «Mi ha chiamato lei il 9 febbraio, una telefonata breve. Il giorno dopo, il 10, sono andato in carcere e mi ha detto che era stata condannata a 33 anni di prigione e 148 frustate in un secondo processo. È stata l’ultima volta che l’ho vista». Come si sentiva? «Emotivamente mi sembrava stesse bene, è forte. Fisicamente era provata, debole dopo lo sciopero della fame che ha fatto quando mi hanno arrestato. Le consentono telefonate molto brevi e visite di soli 20 minuti una volta a settimana, due volte per i nostri figli. Ma da quando è stata arrestata le hanno negato due volte di vedere i familiari». Come vengono trattati i detenuti di Evin? «Il 10% circa sono detenuti politici, avvocati per i diritti umani, difensori dei diritti delle donne e sono trattati in modo estremamente duro. Vengono bendati ogni volta che lasciano la cella, anche quando vanno in bagno. La sezione femminile della prigione è piccola e le donne non hanno libero accesso al telefono come i detenuti uomini: possono fare solo brevi telefonate». Le forze di sicurezza hanno fatto pressioni sulla vostra famiglia, i vostri amici? «Un nostro amico, l’attivista per i diritti umani Farhad Meysami è stato arrestato in parte anche per il lavoro che fa con Nasrin. Io sono stato arrestato per Nasrin. Alcuni nostri amici sono stati minacciati e interrogati, è stato detto loro di prendere le distanze dalla nostra famiglia. L’intelligence ha perquisito la casa di mia sorella e ha interrogato suo marito. In prigione temevo che avrebbero preso di mira i nostri figli». Sotoudeh ha un avvocato? «Non le è stato permesso di vedere nè di mantenere il suo avvocato. Hanno provato a obbligarla a sceglierne uno da una lista di 20 approvata dalle autorità giudiziarie ma si è rifiutata». Che cosa pensa che succederà ora? «Se le autorità iraniane non sentiranno la pressione internazionale non la rilasceranno. L’Europa, che fa accordi con l’Iran di diverso tipo, deve assumersi le sue responsabilità fino in fondo: la questione dei diritti umani non può passare in secondo piano». «Mia sorella sapeva di essere nel mirino ma non si è fermata. Credeva nei suoi valori. Per le sue idee oggi paga un prezzo altissimo: da dieci mesi è in carcere, è stata torturata, molestata sessualmente. Ha provato a parlarne con uno psicologo ma solo a ricordare quello che aveva subìto è svenuta. La seconda volta è stata riportata dal medico a forza: con una benda sugli occhi e legata a una sedia a rotelle». Walid al Hatloul è il fratello minore di Loujain, una delle attiviste saudite che ieri per la prima volta dal giorno dell’arresto, a maggio, sono comparse davanti a un giudice a Riad. All’udienza a porte chiuse – ingresso vietato anche a diplomatici europei e giornalisti – oltre ad al Hatloul, 29 anni, sono comparse anche Eman al Nafjan, 34 anni, insegnante, madre di tre bambini, e Aziza Yousef, 60 anni, professoressa in pensione: i volti più in vista del movimento femminista saudita. Insieme a loro un’altra dozzina di donne, tutte arrestate nella retata contro le attiviste che per anni si sono battute per la fine del divieto di guida ordinata dal governo proprio alla vigilia della fine del divieto stesso. I familiari e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno denunciato che le prigioniere sono state torturate, frustate con cavi elettrici, sottoposte a waterboarding e sottoposte a molestie sessuali. Walid conferma: «L’estate scorsa Loujain poteva chiamare a casa una volta a settimana. Diceva che stava bene ma quando i miei genitori sono andati a visitarla ha raccontato che l’avevano picchiata, le avevano date scosse elettriche e che avevano cercato di strapparle i vestiti di dosso, urlandole che era una puttana». Racconti simili anche dai familiari di altre detenute. Ieri Al Hatloul ha potuto finalmente conoscere i capi di accusa che le sono rivolti: ma non sono stati resi pubblici. E a nessuna delle attiviste è stato consentito finora avvalersi di un avvocato. Una sola notizia che potrebbe essere positiva: inizialmente prevista presso la corte che si occupa di reati legati al terrorismo, la causa è stata discussa presso un normale tribunale. Un segno che fa sperare che le tante pressioni internazionali su questo caso stiano funzionando. «Sento molto parlare di riforme – conclude Walid al Hatloul – ma non posso chiedermi che tipo di riforme può portare avanti un Paese che ha rinchiuso in carcere le donne che più di ogni altro si sono battute per le riforme. Questa è una cosa che non bisognerebbe mai dimenticare quando si parla di Arabia Saudita».

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La condanna a 38 anni e 148 frustate contro Nasrin Sotoudeh è una pena crudelissima e arcaica. I capi di accusa nei suoi confronti sono francamente risibili perché Sotoudeh è una delle avvocatesse più conosciute e popolari in Iran e la sua è una lunga storia di difesa dei diritti umani e delle donne in particolare. Un impegno per il quale il Parlamento europeo nel 2012 le ha conferito il premio Sakharov. Sotoudeh era già stata arrestata nel 2011, ora è di nuovo in carcere per aver difeso le attiviste che si sono tolte il velo in segno di protesta contro l’obbligo di indossarlo e perché da tempo si batte contro la pena di morte in Iran, un Paese che in questo campo ha un triste primato. Penso che l’Italia così come l’alto Rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, e altri governi in maniera bilaterale stiano facendo pressioni sul regime iraniano: bisogna continuare a farle, ma serve anche una mobilitazione ampia, importante per la sua liberazione. Difendere Sotoudeh significa difendere anche tutti i prigionieri politici in altri Paesi. Il suo caso è emblematico delle violazione dei diritti umani. È una ferita molto estesa e molto grave che esiste anche in altri Paesi con cui l’Italia e l’Europa hanno buoni rapporti: dall’Egitto, in cui è stato torturato e ucciso Giulio Regeni, alla Libia, dove rimandiamo donne che vengono stuprate e violentate, passando per l’Arabia Saudita, dove oggi finiscono a processo le attiviste che si sono battute per i loro diritti. Non sono una marziana ingenua, so bene che sui rapporti internazionali pesano molteplici interessi anche economici importanti, ma non è accettabile che la difesa dei diritti umani sia sempre l’ultimo della lista. È la tipica realpolitik alla quale non bisogna adeguarsi, perché so con certezza che — anche se fanno finta di non esserne toccati — tutti i regimi e tutti i Paesi sono sensibili alle pressioni internazionali. Bisogna continuare a farle. Non dobbiamo arrenderci.

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