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La Repubblica Rassegna Stampa
22.10.2018 Finanza islamica: un articolo idilliaco che ignora il dramma della povertà nei paesi musulmani
Commento di Giampaolo Cadalanu

Testata: La Repubblica
Data: 22 ottobre 2018
Pagina: 16
Autore: Giampaolo Cadalanu
Titolo: «Finanza islamica, un 'sukuk' da 2.500 miliardi di dollari»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA - Affari e Finanza di oggi, 22/10/2018, a pag. 16, con il titolo "Finanza islamica, un 'sukuk' da 2.500 miliardi di dollari", il commento di Giampaolo Cadalanu.

Secondo Giampaolo Cadalanu la finanza araba cresce in modo "incontenibile". Cadalanu, però, non spiega come mai nei Paesi arabi il divario tra i ricchi - che sono ricchissimi - e la maggioranza povera è tanto grande. Lo sfruttamento - anche a fini politici - delle risorse energetiche presenti in gran quantità non ha portato all'arricchimento complessivo di molti Paesi, ma solo a quello di clan e casate. Per questo l'articolo di Cadalanu disinforma, dipingendo un affresco idilliaco della finanza islamica.  Non mancano, infine le frecciate esclusivamente contro Mohammed Bin Salman, mentre viene ignorato completamente il sistematico disprezzo dei diritti umani in tutto il mondo islamico e il sostegno al terrorismo da parte di Paesi come Iran, Turchia, Qatar. Riassumendo, se l'economia 'halal' è così straordinaria, come la mettiamo con la povertà dilagante?

Ecco l'articolo:

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Giampaolo Cadalanu

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La tragica vicenda del giornalista Jamal Khashoggi, torturato e ucciso nel consolato saudita di Istanbul, solo apparentemente a poco a che vedere con il prepotente sviluppo della finanza islamica. In realtà, visto il diretto coinvolgimento dell'uomo forte saudita Mohammed bin Salman, e il fatto che il primo effetto è stata la diserzione di massa alla "Davos del deserto" in programma a Riad dal 23 al 25 ottobre e organizzata dal principe stesso, le conseguenze sono potenzialmente pesanti: a partire dall'irrigidimento della finanza "alta" nei confronti - dell'emergente potenza araba. È come se si fosse potenzialmente interrotto un percorso virtuoso, che stava accreditando nei circuiti occidentali un'attività finanziaria, appunto quella islamica, piuttosto peculiare in quanto vieta di chiedere interessi e quindi apparentemente contraddice il principio del rischio. Sta di fatto comunque che si assiste a un'esplosione globale della finanza islamica con una crescita a due cifre. Nata negli anni '60, oggi ha superato un giro d'affari di 2500 miliardi di dollari e si prevede che nel 2021 raggiunga i 4000. L'attenzione a uno strumento che ha come fondamento criteri di sostenibilità è generale, tanto che persino l'Osservatore Romano ha individuato nella finanza islamica un attore importante per la necessaria rifondazione delle regole finanziarie dell'Occidente, oggi in crisi di fiducia. E sembrano ormai superati i dubbi nati dopo gli attentati dell'al settembre, che individuavano zone d'ombra nei meccanismi finanziari islamici sospettando attività di riciclaggio e finanziamento al terrorismo. Il rispetto della Sharia impone scelte precise: oltre al divieto di interessi (riba), c'è l'obbligo di evitare tutte le attività "haram", cioè proibite. Oltre a quelle vietate dai precetti del Corano, come tutto ciò che ha a che fare con gli alcolici, la carne suina, la pornografia e l'azzardo, c'è la lontananza dalle produzioni belliche, che coincide coni criteri della finanza etica occidentale. Le istituzioni finanziarie islamiche hanno l'obbligo di ridurre gli aspetti di ambiguità (gharar) e quelli di azzardo (maysir) o di arricchimento basato sull'impoverimento altrui (qimar). II modello fondamentale, oltre a escludere il rischio eccessivo, prevede che al centro dell'attività finanziaria ci sia un bene reale, escludendo quindi i "derivati" convenzionali e vietando esplicitamente la vendita di ciò che ancora non è posseduto. La partecipazione a utili e perdite è diffusa: le banche dividono quindi rischi e guadagni con gli investitori. Fra i servizi finanziari che permettono alla banca di guadagnare anche senza caricare interessi, una categoria diffusa è l'"ijara", un vero e proprio leasing in cui la banca compra un bene per un cliente e glielo affitta per un periodo determinato e in certi casi gli attribuisce la possibilità di riscattarlo a fine leasing. "Mudaraba" e "musharaka" sono investimenti condivisi da banca e cliente, mentre "murabaha" è una forma di credito senza interesse, in cui la banca compra un bene e lo rivende a un prezzo più alto in forma differita. Ma il prodotto più popolare sono senz'altro i sukuk, titoli ibridi di credito e debito rispettosi della Sharia, che sono arrivati a sfiorare i 2nliIa miliardi di dollari, con crescita annua fra il 14 e il 15%. I takaful, società assicurative, vedono il loro giro d'affari crescere attorno all'undici per cento, mentre il settore bancario aumenta del sei per cento. Il meccanismo del sukuk prevede che il titolare abbia diritto a una quota dell'attività economica concreta (non finanziaria) di riferimento. Per mettere a reddito un pool di beni produttivi (per esempio, un gruppo di immobili), una società intermedia li acquista e per finanziarsi emette dei titoli che sono in sostanza certificati di partecipazione e che periodicamente restituiscono un canone. «Il sukuk - spiega Federica Miglietta, docente all'università di Bari ed esperta del settore - assomiglia a una obbligazione per la forma dei flussi: c'è un reddito costante pagato a scadenze definite, come i flussi cedolari. Contemporaneamente ha alcune caratteristiche da titolo azionario, perché l'investitore ha diritto al rendimento solo se il bene sta rendendo effettivamente, cosa che invece con le obbligazioni non succede». I prodotti della finanza islamica sono diffusi in un'ottantina di paesi, in testa Dubai, la Malesia e l'Indonesia. I sukuk sono in fase di diffusione molto rapida in tutto il continente africano. Ma ora è il momento dell'accelerazione in Europa: già nel 2004 il Land tedesco Sassonia Anhalt ha lanciato il primo sukuk del continente. Nella Repubblica federale vive un quarto dei musulmani d'Europa: per loro, ma non solo, il gruppo Al Baraka Banking Group, attraverso la sussidiaria turca Al Baraka Turk, ha lanciato una banca islamica solo digitale, chiamandola "Insha", che in arabo significa "Creazione". In Germania è la seconda banca islamica, dopo il lancio tre anni fa della KT Bank, braccio della Kuveyt Turk di Istanbul. E sono già numerose le emissioni di sukuk, titoli di credito rispettosi della sharia. Il centro europeo della finanza islamica resta comunque Londra. Nel Regno Unito sono registrate cinque banche rispettose delle regole musulmane e una ventina di istituti tradizionali ospita sportelli dedicati. La Borsa della City quota una settantina di sukuk e i cespiti complessivi del Regno Unito raggiungono i 700 milioni di sterline. Ma le incertezze sulla Brexit hanno stimolato l'interesse delle banche d'Oltralpe: in Francia il settore è in ritardo, nonostante ci vivano sei milioni di musulmani. Meglio posizionata in vista dell'uscita britannica dalla Ue è l'Irlanda: l'anno scorso l'Arabia saudita ha quotato a Dublino il sukuk più ricco, raccogliendo due miliardi di dollari. Quest'anno è stata la volta di un titolo islamico emesso da una società irlandese specializzata che ha raccolto più di 150 milioni di dollari, poi un sukuk da 600 milioni della compagnia aerea Emirates quotato a Dublino e Dubai, un altro della Dubai Islamic Bank che ha raggiunto il miliardo. Anche il Lussemburgo, entrato nel business già dal 2002 e primo Paese dell'area euro a emettere un sukuk sovrano, può vantare 50 fondi di investimento conformi all'Islam e sta cercando di raccogliere nuovi investimenti per il fintech islamico. La Svizzera si misura con la finanza islamica da oltre un decennio, dopo aver affrontato le assicurazioni (takaful) e lanciato la microfinanza halal, e oggi vede impegnati diversi istituti, compresi la Arab Bank Switzerland e la Habib Bank di Zurigo. Fuori dal settore, al di là di qualche primo studio mai concretizzato, è l'Italia, dove pure vive un milione e mezzo di musulmani.

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